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C'era una volta in Anatolia

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta in Anatolia

di OGM
8 stelle

Il suono della morte è un silenzio che rimbomba, sordo, stupido, e perfino un po’ volgare. Ha l’aspetto grigio, sinistro ed abbattuto di un povero diavolo assassino. Un’immagine che si potrebbe scambiare per il volto di Cristo sulla croce, se non fosse per quello sguardo carico di un umiliante senso di colpa. Il protagonista del racconto potrebbe essere il delitto, quello commesso ai danni di Yasar Toprak da Kenan, che quella sera era ubriaco, e non sapeva ciò che faceva. E non si ricorda nemmeno bene in quale punto della steppa anatolica abbia sepolto il corpo di quello sventurato. Invece questa squallida storia parla  soprattutto del mistero. Quello inarrivabile, che si nasconde dietro le realtà più sgradevoli, come quelle che circondano  un cadavere coperto di terra, insidiato dalle bestie selvatiche, abbandonato in un luogo polveroso e dimenticato da Dio. Come dire che il dolore, in fondo, è una cosa sporca. In passato Nuri Bilge Ceylan ci aveva mostrato il lato impresentabile dell’amore coniugale, della vita familiare, dell’amicizia. Questa volta la rivelazione scandalosa riguarda, impudentemente, un concetto veramente sacro, quale è il confine tra la vita e la morte. Il lutto si prepara con una missione di polizia, un’estenuante spedizione notturna interrotta da una frugale cena dentro un casolare, tra chiacchiere inutili e superficiali sfoghi di uomini incupiti e frustrati: un procuratore, un medico legale, alcuni agenti, due scavatori. E culmina dentro la sala di un obitorio, tra vestiti tagliati e messi in un sacchetto della spesa, e carne umana trattata come materia inerte. Il rancore ha le dure sembianze di un ragazzino che scaglia una pietra in testa all’omicida del padre. Tutto è triste e brutto, e comincia ad esserlo nel preciso istante in cui, in qualsiasi modo, perde l’innocenza.  In questo film c’è un solo angelo: è Cemile, la fanciulla rimasta al riparo dal mondo, a lavorare in cucina nel ristorante di famiglia. Durante un blackout, la vediamo attraversare la buia sala del locale distribuendo caffè con un sorriso, mentre una lampada, posata sul vassoio, le rischiara il viso candido. Un’apparizione surreale, in un universo avvolto nelle tenebre dell’imperfezione e dell’errore. Un’icona lirica che, per un istante, si sovrappone magicamente alla banalità di un’esistenza un po’ così, in cui tutto ha scarso valore, tanto che basta un niente per distrarsi e cambiare discorso, anche quando la questione si fa seria. Il fatto è che, anziché credere e conoscere, preferiamo limitarci a vivere. Illudendoci che ogni cosa sia come appare, e non possa essere altrimenti. Se non riusciamo a smettere di fumare, è perché il vizio ci ha preso di mira  e non ci vuole mollare. Se una donna cade al suolo esanime, è perché le si è fermato il cuore. L’evidenza regna sovrana, ed è una maschera impastata di fango, applicata alla bell’e meglio sulla faccia della Terra. Sotto, per chi lo percepisce, si cela il nobile spirito della sofferenza, dell’ansia di sapere, della ricerca della verità.   È la profonda origine di ciò che rimane, a dispetto dell’oblio degli uomini e dell’insulto del tempo, e che magari, a distanza di anni, si riaffaccerà alla nostra mente come una favola, desiderosa di essere narrata. C’era una volta in Anatolia: è l’inizio di quello che si ricorderà, quando il caso giudiziario sarà chiuso, e le lacrime saranno state asciugate. È l’incipit di una disavventura qualunque, trasfigurata a posteriori in leggenda,  ma che lì per lì ci ha procurato solo noia e nausea, facendoci bestemmiare e sputare sangue.

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