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Polisse

Regia di Maïwenn Le Besco vedi scheda film

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La recensione su Polisse

di spopola
8 stelle

Meritatissimo premio della giuria al festival di Cannes del 2011, l’ultima opera di Maïwenn Le Besco, forte di una bellissima sceneggiatura a suo modo ad incastri, ma assolutamente lineare nello svolgimento, e supportata da dialoghi realisticamente veritieri, serrati e diretti, che rifiutano ogni residua patina di velleitarismo letterario, è un poliziesco urbano, corale e  realistico che racconta con cruda oggettività una miriade di storie tristemente dolorose fatte di silenzioso sbigottimento e di scomode e spesso involontarie complicità ed omissioni. Vicende terribili che si intersecano fra loro mischiandosi con quelle della vita lavorativa e privata dei poliziotti che le raccolgono e devono necessariamente farci i conti, rimanendone a loro volta quasi segnati, perché il film ha anche il pregio di mettere in evidenza gli altrettanto dolorosi “abusi “ che gli adulti - forze dell’ordine comprese – compiono (spesso inconsapevolmente) su loro stessi. Il tutto, dentro un’opera  appassionante, densa e variegata  nella quale la regista prova a combinare i generi (poliziesco, melò sentimentale e reportage) miscelando con molta sapiente perspicacia, l’immediatezza brutale del cinema americano con la differente visione tutta francese delle cose che anche nel polar ha sempre avuto un posizionamento dello sguardo più sociologico anche se particolarmente attento alle emozioni (spesso mediate da un dissacrante e provvidenziale “distacco” oggettivo che aiuta a distanziare e a rendere meno viscerale il coinvolgimento dello spettatore rispetto ai fatti che sono raccontati).

Polisse è comunque  principalmente e prima di tutto un resoconto duro ed essenziale su una realtà che con un po’ di approssimazione potremmo definire essere quella “dell’infanzia tradita”, un’opera che non fa però sconti a nessuno, impietosa e priva di indulgenza  com’è non solo verso i corruttori, ma anche per quasi tutti gli altri personaggi che porta sulla scena.

Con un approccio anche lessicale di crudele immediatezza e senza alcun indugio, titubanza o mediazione che addolcisca l’impatto, è un film che documenta senza  pretendere però di fornire (im)possibili soluzioni, o fare del moralismo d’accatto. Evidenzia e sottolinea semmai le distanze e le separazioni, gli imbarazzi e le ipocrisie della nostra società, con un pessimismo di fondo molto accentuato che non lascia alcuno spazio a una pur minima illusione che possa farci anche soltanto baluginare una  remota ipotesi di “salvifica speranza”, come dimostra e conferma l’inatteso finale quasi pleonastico ma fondamentale, che casca sulla testa dello spettatore come una mazzata impossibile da schivare, e induce dopo lo sconcerto inevitabile, a riflettere e meditare sulle ragioni che l’hanno generato ritornando a considerare tutto ciò che è passato fino a quel momento sullo schermo, fino a comprendere che l’accumulo delle tensioni ben evidenziato e sviluppato soprattutto nella seconda parte, non poteva che sfociare in quella improvvisa tragedia, fortemente segnata dai drammi più trasversali e privati portati in primo piano con puntiglioso rispetto della veridicità (prendendo cioè a prestito per i resoconti degli abusi sull’infanzia, fatti e situazioni acquisiti direttamente dalla fonte, come indica la didascalia iniziale che precisa “puntigliosamente” che tutto ciò che viene rappresentato sullo schermo è ispirato a storie realmente accadute).

Quello della Maïwenn è uno sguardo lucido e civile (ma implacabile) che scruta le debolezze del fattore umano dunque, e scava di conseguenza ancora una volta nell’ambiguo e sinistro rapporto che esiste o si instaura a un certo punto, fra vittima e carnefice con connotazioni sempre più sfumate. Il disegno composito e complesso delle situazioni è molto vicino – pur se in altra forma e con differenti obiettivi - alle durezze e agli interrogativi di Mysterious Skin di Gregg Araki: anche qui c’è infatti un episodio dove fra l’abusato e il pedofilo sembra quasi di poter intravedere un sotterraneo sentimento di complicità nemmeno tanto indotta  che porterebbe a indicare come la Legge per quanto necessaria, abbia poi nella praticità dell’azione, oggettive difficoltà a stare al passo con le cose e ad adeguarsi alle molteplicità (magari anche indigeribili) più che delle pulsioni personali, proprio dei differenti punti di vista, per l’impossibilità reale di separare (e distinguere) il falso dalla verità, la calunnia dalla suggestione, in una realtà molto più sfumata dove lo stesso minore finisce per mostrare a volte una sessualità meno ipocrita e spesso anche un tantino compiacente e mercantile (per comprendere meglio ciò che intendo dire, sarebbe necessario ritornare a un film del 1992 che ha circolato poco e male qui in Italia come For a Lost Soldier  di Roelend Kerbosch che si rifà all’omonima autobiografia del ballerino olandese Rudi Van Danzing e che ha il pregio di raccontare da un’altra prospettiva e rifuggendo da ogni stereotipo, una storia che sarebbe ingeneroso semplicizzare – e condannare - con l’etichetta sommaria della pedofilia).

Cercando di organizzare un discorso preso di petto e senza scorciatoie per trasformarlo poi in un coinvolgente, tesissimo rapporto in costante equilibrio fra finzione e documento, cronaca vera e ambizione analitica, la regista mostra così con le sue tante storie, proprio le contraddizioni di una verità sempre più difficile da accertare e riconoscere univoca e definitiva, compresa  l’insufficienza evidente delle “regole” che in qualche caso non consentono di confrontarsi davvero e fino in fondo con il grigio ed ordinario esercizio della prepotenza per districare la matassa. Sul versante sociologico comunque, la Maïwenn  dimostra di conoscere perfettamente come stanno le cose, e cioè che l’abuso sui minori è una questione trasversale che interessa ogni strato sociale e che non è soltanto di tipo sessuale (non è infatti da meno lo sfruttamento lavorativo di un campo rom rispetto a quello che si  consuma fra le ipocrite bianche pareti in cui abitano serafiche le perversioni del Potere) e che è proprio il labile margine che separa la legalità dal reato ad essere, soprattutto in questo territorio, flebile quanto quello che divide il vero dal falso, esattamente come  un bagno a un bambino può essere innocente e osceno, persino contemporaneamente, tanto che la verità delle cose non può che disperdersi: nelle categorie che si applicano alla realtà, come nelle mistificazioni (in)consapevoli del linguaggio (Giulio Sangiorgio).

Con la macchina da presa a mano e senza cedimenti estetici e consolatori, il film tallona da vicino i protagonisti, i loro pensieri e le loro azioni, sintetizzando così il disagio del poliziotto e la complicata accettazione delle molestie familiari di chi dovrebbe invece vigilare, dentro a un racconto “a più facce” che prende l’avvio da un’inchiesta assegnata a una fotografa inviata dal Ministero per seguire l’attività dell’unità speciale che in Francia si occupa di proteggere i minori da abusi e molestie, una intromissione che altera un poco gli equilibri di un nucleo in apparenza ben oleato ed omogeneo, ma “inesorabilmente”  chiuso, una specie di “cartina di tornasole” insomma che mette allo scoperto  rapporti, rivalità ed attrazioni che vanno ben oltre le ore di lavoro, e porta in superficie conflitti e tensioni già profonde e latenti. L’inchiesta, evidenzierà alla fine chiaramente (soprattutto allo spettatore), che è impossibile isolare le relazioni private dalle tragedie di cui si è diventati testimoni, e che sono poi proprio queste a condizionare ogni rapporto e a creare insostenibili frizioni.

Maïwenn, con uno stile oggettivo e rigoroso, fotografa così con assoluta proprietà di linguaggio, la stanchezza e gli sforzi (persino l’impotenza in certi casi) di un gruppo schiacciato dal dovere che agisce in bilico  tra istinto e responsabilità morale senza troppi supporti di natura umana e psicologica, che non siano quelli della personale (e differente) conoscenza delle cose.

Con una visione del crimine che sembra volersi avvicinare a quella espressa da Bertrand Tavernier con il suo straordinario Legge 627  che riguardava il putrescente mondo della droga, ma tenendo ben presenti e in primo piano i legami di solidarietà che potrebbero benissimo trovare un riferimento certo negli episodi seriali di Hill Street giorno e notte e una struttura formale del racconto che si avvicina di più a quella utilizzata da Laurent Cantet per La classe - Entre les murs., la regista pur non raggiungendo il pessimismo claustrofobico e rassegnato di un’opera come Police di Pialat  con la sua disturbante galleria di personaggi  non convenzionali di una contemporaneità del mondo sgradevole e devastata, pellicola dichiaratamente citata a riferimento fino dal titolo letto però come se si trattasse di un fraintendimento infantile (ancora Sangiorgio), la regista cerca a suo modo di individuare per lo meno un percorso di sopravvivenza se non proprio di redenzione pur fra gli intricati e ironici paradossi  costruiti attorno alle manipolazioni e le bugie, per restituire la complessità di ogni pratica anche giuridica con la scansione incalzante e ossessiva di verità sempre più orribili e spiazzanti ma quasi mai accertabili davvero fino in fondo. Racconta comunque in parallelo  anche l’implicita tentazione di provare, se non a riformare, per lo meno a mettere un poco in discussione gli usurati codici di giustizia privata in essere, cercando di mettere a fuoco soprattutto i dubbi e le incertezze di indagini e riscontri fatti quasi sempre con pressappochismo. L’approccio alla vita degli agenti fra bambini molestati e familiari molestatori o consenzienti, è in ogni caso di tipo  antropologico e l’esposizione è fatta  con una sensibilità e una delicatezza tutte femminili nel tratteggiare un microcosmo in cui in ogni confessione convivono e si combinano vergogna e repulsione di un’umanità turbata e reticente che si affolla all’interno e intorno alla Brigade de Protection des Mineurs della polizia di Parigi.

Una pellicola insomma civile ed etica sulla frammentazione e l’assenza dell’ordine familiare, ma anche sulla passione e l’incredulità di chi è chiamato ad esercitare la professione del contrasto, della tutela e della repressione,  realizzata con una struttura a suo modo classica nel riprodurre la presunta armonia della squadra e il peso interiore, coltre che la responsabilità anche morale dell’incarico, in un gioco alternante fatto di luci ed ombre che si riflettono costantemente le une nelle altre.

Ottimo l’intero cast  “corale” ben amalgamato che non stecca mai e dove oltre alla stessa Maïwenn  spiccao i nomi di  Karin Viard, Joey Starr, Marina Fois, Nicolas Duvauchelle, Sandrine Kimberlan, Emmanuelle Bercot, Anthony Delon, Frederic Pierrot, Louis-Do de Lenquesaing e quello del nostro Riccardo Scamarcio.

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