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Polisse

Regia di Maïwenn Le Besco vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su Polisse

di giancarlo visitilli
4 stelle

Ottimo il coraggio dell’attrice/regista francese, Maïwenn Le Besco. E’ evidente la laboriosa ricerca che ci sta prima del racconto, in questo suo terzo lavoro. Insolito nel cinema europeo. Ma tutto ciò non basta per fare un buon film.

Infatti, la storia è quella di una fotografa-giornalista, Melissa (interpretata dalla stessa regista), incaricata dal Ministero dell'Interno per la realizzazione di un’intervista. Questa incontrerà Fred, uno dei ribelli della Squadra Protezione Minori di Parigi, che non smentendo la sua reputazione, non impiegherà molto ad innamorarsi della bella fotografa, la quale sarà combattuta sullo scegliere tra il marito François, che la tradisce, e l'affascinante Fred.

Il film ha i primi quindici minuti che sono perfetti, tutto comincia a scemare da quando l’intera squadra si ritrova in una discoteca, per festeggiare l’improbabile successo di cui si erano occupati fino ad allora gli uomini e le donne della Squadra. Tale momento coincide proprio con lo stesso in cui Melissa s’innamora di Fred.

Nello spazio asettico e sempre zeppo di scrivanie, carte, cartuccelle e telefoni sempre bollenti, c’è un continuo passare di bambini, adolescenti, abusati da padri, madri, zii e nonni che, a differenza di quanto i dati ci raccontano e mostrano ogni giorno, attraverso gli orrori di cronaca, non si tratta affatto di gente disponibile al dialogo, figuriamoci se pronti ad ammettere di essere gli orchi, così come avviene nel film. Non ne parliamo delle reazioni degli agenti di Polizia, sempre pronti a scaraventare addosso ai reietti e ammalati di pedofilia, una sorta di lezione catechetica moraleggiante che, addirittura, sfocia in reazioni violente e scomposte. Ma da parte di chi dovrebbe rappresentare la Legge e la Giustizia.

E allora, ci sono tanti momenti nel film in cui si ride e ci si imbarazza per certe battute. Ma questo fa parte del gioco: l’utilizzo dell’ironia è fondamentale in qualsiasi storia, anche nella più tragica. Però, non nel momento in cui si sta facendo indagine, per esempio, rispetto ad uno strumento essenziale ed importante nell’ambito di un’inchiesta sulla pedofilia, come un cellulare (tutta la serie di battute sul cellulare sono irritanti). Che dire, poi di centoventisette minuti di pellicola, in cui la ridondanza delle storie, sempre uguali, si associano a interminabili festeggiamenti di una squadra che assomiglia di più ad un  gruppo di amici che si ritrova insieme dopo tanti anni, grazie a Facebook (una decina di minuti li mostra in discoteca che ballano: perché? Per dirci cosa?).

Fa parte del loro lavoro, perciò é comprensibile l’empatia. Ma chi lavora in tali ambiti conosce perfettamente alcuni meccanismi che studia, sperimenta e mette in campo. Si ha la forte impressione che gli unici ad avere veramente bisogno di sostegno sociale e psicologico sono gli stessi agenti della Squadra. Le loro vite sono problematiche e deprivate della consistenza reale di chi svolge un lavoro simile.

La bella Maïwenn è rispettosa delle convenzioni della fiction, pur provandoci con i toni da finto documentario. La stessa sceneggiatura, scritta a quattro mani con Emmanuelle Bercot, non riesce a raggiungere il giusto equilibrio fra la storia d’amore e il racconto dell’inferno in cui vivono bambini e bambine. Il finale a effetto, sebbene potente e coraggioso, è l’unico che appare verosimigliante alla verità e all’essenza delle cose che si vedono, si ascoltano e si inghiottiscono, nel caso di queste brutte storie.

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