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...E ora parliamo di Kevin

Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film

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La recensione su ...E ora parliamo di Kevin

di giancarlo visitilli
8 stelle

Quando il male non è soltanto banale, ma fa parte di ogni contesto della vita, privata e pubblica, tutto diventa più difficile. E la cronaca quotidiana lo dimostra. Si ha paura, si è privi di difese. L’angoscia sale, e vivere, ogni giorno, diventa come un appuntamento imprescindibile con la definitiva resa di fronte alla violenza. Queste verità sbatte in faccia questo film/gioiellino, che in un momento storico, particolarmente violento come quello che viviamo, può dirci molto, rispetto al futuro a cui ci apprestiamo.

Tratto dal libro “We need to talk about Kevin” dello scrittore americano Lionel Shriver, il film ha ottenuto sei candidature ai British Independent Film Awards, vincendo il premio per la miglior regia. La protagonista Tilda Swinton si è aggiudicata invece il premio come miglior attrice agli European Film Awards, ai National Board of Review Awards e ai San Francisco Film Critics Awards.

La storia è quella di una madre, Eva, che ha visto il suo mondo andare lentamente in frantumi, a causa della nascita del suo primo figlio Kevin. Questi è un comportamentale, man mano che crescerà sarà un adolescente tormentato e afflitto da evidenti sintomi di sociopatia. Tra l’altro, il papà di Kevin, Franklin, non supporta abbastanza la moglie nei momenti di maggiore difficoltà, per esempio, durante il difficilissimo periodo post-parto, per poi minimizzare lo strano comportamento del ragazzo, che sfruttando le debolezze della madre, come forma di ricatto emotivo, fomenterà la sua inquietudine (e violenza) in conseguenza della nascita della sorellina, Celia. Allora la violenza e la follia detteranno legge nella vita di Kevin e di qualsiasi luogo egli frequenta.

La straordinaria regista scozzese, Lynne Ramsay, qui alla sua terza regia, racconta, con un fascino tutto personale e intimo, una tragedia che ha tutti i connotati della cronaca quotidiana. Si ha la netta sensazione che non si tratti semplicemente di un film. Perciò ci si angoscia, si sta male, si ha un senso di claustrofobia, durante e dopo la visione. Perché, la scelta che compie la Ramsey è quella di concentrarsi sulla causa del male, piuttosto che stringere intorno a quello che farebbe più gola, per esempio all’audience tv di cattivo gusto, di cui in Italia siamo maestri (fra plastici e ricostruzioni da capogiro): sulle vittime o sui carnefici di turno.

La macchina da presa, addossata sul volto scavato e sulle rughe della madre di Kevin, funge da introspezione: divora dall’interno, tra sensi di colpa e una disperazione latente, che non permette ad alcuno di riabilitarsi con la normalità della vita. Non se ne esce.

Accanto ad una regia perfetta, che raggiunge vette vertiginose durante diversi momenti del film, impressiona per la sua bravura, Tilda Swinton. Capace di misurare, centellinare quasi, ogni sua espressione, dall’affinatissimo registro drammatico. Siamo di fronte ad un film che arriva diritto allo stomaco e che scaraventa gli spettatori, tutti, in un limbo d’impotenza, quasi incredulità, disperazione e tensione. Sebbene, una gran parte del film risulti una importante riflessione sul ruolo della donna, in rapporto alla responsabilità della maternità, ce n’è per tutti, piccoli e grandi, uomini e donne.

All’eleganza della fotografia e del serrato montaggio, si registra anche un uso straordinario del sonoro, che ha quasi la funzione di armonizzare il dolore, la paura, la rabbia, e la disperazione, coniugandole con la normalità della vita, anche se poi, questa, è abitata da mostri, fra vittime e carnefici. Ed è quasi impossibile chiedersi il perché delle cose, perché è proprio vero che “Il punto è che non c’è il punto”. La circolarità del male, alla fine crea disperazione. Film assolutamente importante.

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