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L'alba del pianeta delle scimmie

Regia di Rupert Wyatt vedi scheda film

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La recensione su L'alba del pianeta delle scimmie

di Spaggy
6 stelle

Non fatevi spaventare dal fatto che L’alba del pianeta delle scimmie sia il prequel di un film che forse, come nel mio caso – e non mi vergogno a dirlo – non avete mai visto perché vi perdereste un discreto prodotto che cerca di coniugare il blockbuster al cinema con pretese autoriali. Che poi ci riesca solo per metà è un altro paio di maniche ma la colpa non è né del regista né degli attori. L’unico problema del film, infatti, sta nella sceneggiatura: levato il sassolino dalla scarpa, sono propenso a credere che uno script migliore avrebbe giovato all’intera opera e avrebbe reso molto più fruibile l’ambientazione futuristica (?) in cui l’azione ha luogo.

 
Innanzitutto, plauso per non aver dato un’indicazione temporale all’ambientazione. Non si sa se siamo in pieno 2100 o ai giorni nostri, la storia si propaga per otto anni ma mai nessun indizio sulle date. È tutto talmente “contemporaneo” (auto, abitazioni, abiti, strumenti di lavoro, tecnologia) da spaventare per il pericolo imminente, per un contagio che potrebbe propagarsi attraverso la velocità della luce o di un aereo (a proposito, in sala evitate di alzarvi subito dopo aver visto partire i titoli di coda: aspettate qualche minuto e preparatevi già all’idea di un sequel del prequel). L’unico elemento che sposta psicologicamente l’allerta è il vedere a film inoltrato alcune immagini provenire da un notiziario che annuncia il primo sbarco dell’uomo su Marte (missione non fortunata, considerando che qualche giorno dopo fa un quotidiano strilla “Persi nello spazio?”), ancora troppo lontana come ipotesi realizzabile.
 
 
L’asse portante su cui poggiano i 100 e passa minuti del film è il concetto di progresso, associato alla ricerca sperimentale di un colosso della farmaceutica, da cui derivano disastrose conseguenze. I due estremi dell’asse sono il ricercatore Will Radmon e il direttore dell’azienda Jacobs. I due hanno motivi differenti per trovare una molecola che riesca a bloccare l’avanzata del morbo di Alzheimer: affettiva è la spinta che muove Will, pecuniaria quella che dirige le azioni di Jacobs. In fondo, Will non vuole altro che arrestare la degenerazione della mente del padre Charles, con cui vive in casa, finendo però col ritrovarsi al contempo figlio e padre: figlio naturale del musicista Charles e padre putativo dello scimpanzé Caesar, nato dalla cavia n. 9, oggetto di esperimenti del portentoso farmaco ALZ 1-12, capace di rigenerare le cellule cerebrali e di accrescere il livello d’intelligenza…  entusiasmante prospettiva se non fosse per gli effetti collaterali che ne innesta e che in un primo momento stoppano la sperimentazione. Ovviamente sono tanti gli errori commessi da Will che vanno contro ogni forma di deontologia ma sorvoliamo per non affossare la pellicola: sperimentare un farmaco non approvato su un essere umano (e accorgersi di aver peggiorato la situazione dopo un apparente miglioramento) è da ergastolo ma siamo pur sempre in un film a carattere fantascientifico e accettiamo la follia che porta l’uomo a sostituirsi a Dio, pagandone il conto con gli interessi.
 
 
Adottando Caesar, Will si rende subito conto che ha di fronte un essere dotato di capacità intellettive, al di sopra della media dei consimili, che crescono con il passare del tempo tanto che, a otto anni, Caesar è poco meno di un uomo, l’unica capacità che gli manca è il linguaggio verbale. E, proprio come un uomo, Caesar comincia a interessarsi alle sue origini: avverte la diversità e si chiede da chi discenda, appurando una verità che mina ogni sua certezza e che lentamente lo fa esplodere in un eccesso d’ira che lo conduce in “prigione”, ospite di un centro di “riabilitazione” per scimpanzé. Ed è qui che il film diviene interessante, cambiando tutte le prospettive in gioco: ci sono tutti gli elementi del dramma carcerario che portano lo spettatore a parteggiare per Caesar, vittima di un sistema ingiusto, e non per l’uomo, vittima della sua sete di conoscenza e dominio sulle leggi della natura. Condizioni disumane, violenze ingiustificate, abusi e soprusi, integrazione con un gruppo di pari e l’accettazione da parte di coloro che detengono l’esercizio della violenza fisica sono elementi che concorrono a gioire del momento del riscatto, sancito da un’evasione atta a ottenere vendetta contro l’industria farmaceutica che ha ripreso la sperimentazione dell’ALZ 1-12. Il “no” colmo di disperazione e rabbia urlato da Caesar è liberatorio anche in senso figurativo e non sconvolge il fatto che abbia acquisito il dono della parola perché a quel punto non esiste più distanza tra lui e lo spettatore, il processo d’immedesimazione ha raggiunto il suo apice grazie alla costruzione emotiva garantita dalla prestazione di Andy Serkis, che gli presta la mimica facciale. La battaglia finale su un ponte sospeso tra cielo e mare ha un sapore quasi epico che ricorda gli scontri tra piccoli eserciti guidati da grandi condottieri e le corazzate incapaci di coordinarsi logisticamente.
 
 
Poche le note dolenti che, però, influiscono pesantemente sul giudizio finale: i personaggi umani non si evolvono nel corso della storia. Chi ha una connotazione negativa all’inizio, la conserva fino alla fine della storia senza possibilità alcuna di redenzione e lo stesso dicasi per chi è connotato in maniera positiva, tanto da rasentare l’irritazione in chi guarda. Inutile, per la storia, è la presenza del personaggio interpretato da Freida Pinto (come dite? C'era anche James Franco? Ininfluente: o lui o un altro sarebbe stato lo stesso) così come inutile appare l’appesantimento del “contagio”, utile a fare da ponte con la pellicola del 1968 e per dare una possibile spiegazione sul come si arrivi a quello status quo ma fuori luogo in un film che poteva avere una dignitosa vita propria.
 
 
p.s.: si astengano dalla visione gli amanti del sangue o delle scene trucolente, non ve n’è quasi ombra!

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