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Real Steel. Cuori d'acciaio

Regia di Shawn Levy vedi scheda film

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La recensione su Real Steel. Cuori d'acciaio

di lussemburgo
6 stelle

Nel futuro prossimo del film  di Levy, tratto da un racconto di Richard Matheson, gli automi hanno sostituito gli uomini nella nobile arte. Ma non ci sono ragioni umanitarie dietro alla scelta di non far più combattere umani tra loro sebbene bensì il loro opposto, il bisogno, anzi, di maggiore violenza, di più dolore e di più sangue, per quanto artificiali. Il film, infatti, gioca sul registro della riconoscibilità per lo spettatore attuale costruendo un futuro identificabile soltanto dallo sviluppo degli apparati elettronici di consumo, telefonini o portatili evoluti, più che dalla scenografia o dall’evoluzione dei rapporti. Soldi e violenza sembrano sempre alla base di ogni relazione, le fondamenta inalienabili della struttura  sociale umana, sempre più prossima ad un inespresso baratro.
Su questo sfondo di cinica disillusione, il film costruisce un amalgama di riferimenti incrociati che si traducono in una trama di volubile e voluta riconoscibilità. Così si miscelano le interferenze produttive di Spielberg in una versione in scala ridotta del franchising Transformers, dove, nel cambio di regia, si sposta l’asse dal meccanico all’umano, dall’efficienza asettica alla ricerca del dettaglio realistico. Real Steel a tratti sembra anche un prequel rustico di A.I.: Intelligenza artificiale, con l’arena di combattimenti clandestini al di fuori dall’idilliaca convivenza tra umani e androidi, in attesa di una sensibilità sentimentale delle macchine ancora da venire. La sinergia produttiva con la Disney relativizza la violenza dell’assunto (boxe e scommesse, preminenza del denaro) e il cinismo dei rapporti interpersonali (famiglie in deficit affettivo) con la ricerca di una redenzione da parte di un padre degenere a contatto con un figlio di cui non ricorda nemmeno l’età ma con cui spartisce la passione per il pugilato mediato dalle macchine e filtrato dall’abilità videoludica della nuova generazione. L’ambientazione white-trash si avvicina a toni da Mad Max: Thunderdome con un’estetica retrodatabile agli anni Ottanta del passato secolo, ma mescolata a storie di elevazione fisica e morale sulla falsariga di Rocky (praticamente fotocopiato nella tattica di incasso come preludio ad uno scatto di orgoglio e di rabbia sul ring) o, ancora in area Stallone, con il rapporto genitoriale conflittuale in ambito camionistico e agonistico di Over the Top, senza dimenticare la zampata lacrimosa dell’azzimato melò di Zeffirelli (Il campione) richiamato dagli ingredienti in primo piano.

Mash-up di temi e toni, Real Steel non inventa né diventa altro che un film di media ambizione, spettacolare nell’aspirazione e ordinario nella confezione, con un voluto contrasto tra la cacofonia ambientale (sonora soprattutto), l’assemblaggio dei riferimenti e la presunta delicatezza dei sentimenti di una regia addomesticata. Come i suoi robot combattenti, il film, con impeto metacinematografico, cerca di mettere insieme scarti per costruire una novità possibilmente vincente, per infine rifarsi ad un modello desueto, debitamente allenato alla ripetizione per gareggiare, senza risultare completamente vittorioso ma almeno dignitosamente competitivo.

Senza lieto fine ma con un finale vagamente morale, il film cerca di mediare tra la freddezza delle macchine e la rozzezza umana, tra il sudore del dolore e l’efficienza produttiva, muovendosi senza tanta leggerezza tra attori in eccessiva libertà e trucchi contenuti, con il risultato di un realismo stridente con il confezionamento da blockbuster senza prendere sul serio nessuna delle possibili direttive, barcamenadosi soltanto tra tutte le divergenti ambizioni e riscattare il lavoro fatto o il prezzo del biglietto.

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