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Il primo uomo

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su Il primo uomo

di Peppe Comune
8 stelle

Jacques Cormery (Jacques Gamblin) è uno scrittore di successo che torna in Algeria dopo molti anni. Siamo negli anni cinquanta, nel pieno della tensione tra le pretese indipendentiste rivendicate dal Fronte di Liberazione Nazionale e il governo coloniale francese. Cormery è accolto con tutti gli onori nel paese dove è nato e ha vissuto tutta l’infanzia, molti ne apprezzano l’impegno profuso nello spiegare nei suoi libri le ragioni del popolo algerino, ma non mancano quelli che lo additano come un traditore del suo paese. Tornare ad Algeri significa per Jacques Cormery, da un lato, confrontarsi con un presente irto di contraddizioni insostenibili e, dall’altro lato, riannodare i fili con un passato che fa emergere sullo sfondo tanti ricordi. Con la mente ritorna ai tempi di quando era bambino (Nico Jouglet), durante un’intera infanzia vissuta in maniera difficile ma serena. Ricorda l’assenza continuata di un padre che non ha praticamente mai conosciuto, la complicità incondizionata con la madre (Maya Sansa), lo zio Etienne (Jean-Paul Bonnaire), la severissima nonna (Ulla Baugè). Ricorda i tempi della scuola, le bravate punite dalla nonna, gli amici di classe, il professor Bernard (Denis Podalidès), il primo a credere nella sua intelligenza viva, quello che cercò di insinuargli l’amore per la grande letteratura  dicendogli che “la Russia non è nei libri di storia, ma nelle pagine di Tolstoj e Dostoevskij”. Ma soprattutto, ritornare a casa significa per lo scrittore confrontarsi con una madre (Catherine Sola) ancora prodiga di attenzioni da cui sembra aver ereditato l’animo meditabondo. Quella madre che lo tiene fortemente legato alle sue radici, che lui vorrebbe proteggere portandosela con se a Parigi. Ma l’anziana donna rifiuta con sofferta cortesia, perché è “bella la Francia, ma non ci sono gli arabi”.

 

 

“Il primo uomo” di Gianni Amelio è un film ci restituisce per intero la luce della memoria, quella che sa guardare indietro per andare avanti, quella che non si lascia imprigionare in un passato venato di nostalgia, ma che in esso sa riconoscere i segni vitali di un’esistenza che intende progredire. Tratto dal romanzo autobiografico di Albert Camus (rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1994), il film si allinea allo spirito del grande scrittore francese, e non solo perché ne ricalca l’impronta esistenzialista, ma anche perché fa emergere in maniera chiara un problema di coscienza molto sentito tra gli intellettuali progressisti francesi, costretti ad oscillare tra l’orgoglio di sentirsi considerati i “figli” prediletti della Francia e la ferma condanna nei confronti delle ferite sanguinanti prodotte dalla politica coloniale. È nel connubio di questi elementi culturali “tipicamente” francesi che Gianni Amelio ha evidentemente tratto un interesse tale da volerci fare un film, così come è nel difficile rapporto tra Francia e Algeria degli anni cinquanta, raccontato attraverso il flusso della coscienza di un bambino che si fa uomo, che è rinvenibile tutta l’attualità della storia rappresentata. Un’attualità vivificata dalla forza evocativa delle immagini e dal carisma avvolgente che sanno esercitare certe parole, in un film che vive di ricordi che non si dissolvono nella memoria, di ellissi temporali marcate, di un andare avanti e indietro nel tempo come a voler cercare nell’insignificanza di episodi particolari la matrice filologica della storia che scorre. Non è un caso che il film inizi con Jacques alla ricerca della tomba di quel padre mai conosciuto, all’interno di un grande cimitero, una croce in mezzo a mille altre. E neanche che prosegui subito dopo mostrandoci lo scrittore in un aula universitaria mentre dice con evidente trasporto sentimentale che “si accetta molto facilmente che solo il sangue possa muovere la storia. Ma il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di quelli che fanno la storia, ma di aiutare quelli che la subiscono”. Perché il senso del film vuole essere subito messo in chiaro ed è già presente a chiari lettere nel suo inizio elegiaco : nel senso di morte che si è impossessato della vita e nella problematica personalità di Jacques Cormery, questo “traditore dell’Algeria” che in ogni istante cerca di dar fiato alla voce agonizzante degli arabi oppressi. Jacques crede fortemente alla “possibilità di una giusta coesistenza tra arabi e francesi in Algeria”, ad una pacificazione civile tesa ad armonizzare le differenze reciproche senza farle diventare dei muri invalicabili. Ma per fare questo, occorre portare rispetto alla morte cominciando col condannare ogni sua gratuita produzione, come anche denunciare le ingiustizie praticate dai  forti sui deboli, sapere che ogni offesa compiuta non può che innescare una reazione rabbiosa (“È la violenza del colonialismo che giustifica la violenza della ribellione”, dice il professor Bernard). Per uscire da questo circolo vizioso che annienta le coscienze, è necessario riconoscersi l’un l’altro come entità appartenenti alla sacralità della vita, superare le vicendevoli diffidenze, capire una cosa invero molto semplice : non si può trascorrere la vita ad aver paura ogni istante di poter morire. “Colui che scrive non sarà mai come colui che muore”, dice solennemente Jacques Cormery, che probabilmente concepisce ogni singola morte come la testimonianza più tangibile di una storia luttuosa che si ripete sempre uguale. Immerso tra gli attacchi dinamitardi degli algerini e l’ottusa volontà di potenza dei francesi, è come se lui scorgesse un bagliore fantastico nella morte, venuto a dare un senso alla vita proprio quando questa è assoggettata all’insensata ferocia dell’uomo contro uomo. Un senso ricercato nella storia raccontata dal basso, attraverso l’evoluzione esistenziale di un individuo che si fa flusso cosciente della memoria. È soprattutto qui che interviene la perizia registica di Gianni Amelio, che è di una precisione geometrica nel passare senza soluzione di continuità dal passato al presente, dai ricordi di un ragazzino che avrebbe voluto crescere in fretta ai resoconti intellettuali dell’uomo che si confronta con le spinte indipendentiste degli algerini. Molto interessante è appunto questo mettere in parallelo la vita che scorre, filtrata attraverso gli occhi sinceri di un bambino, con il respiro ampio del divenire storico incarnato dalla tempra riflessiva dello scrittore. Un percorso a tappe che oscilla continuamente tra la solidità dei valori familiari e la frammentazione culturale del tessuto sociale del paese, la lealtà alle cose in cui si crede e la diffidenza verso il prossimo, lo sguardo etnografico e la riflessione geopolitica. Il come si era e il come si è diventati finiscono per guardarsi allo specchio senza più riconoscersi, somigliando ad un vuoto incolmabile che rischia di trasformarsi in un abisso di inquietitudine. Bello ed emblematico è soprattutto l’incontro con il professor Bernard, perché pieno di riflessioni semplici ma mai banali, profonde ma alla portata di chiunque, un rapporto che mette in evidenza l’esistenza di un elefante che però  viene visto sempre e solo da poche persone. “Ti ricordi quando a scuola si parlava di Roma e dei Barbari ? C’era una cosa che non vi dicevo : si può stare dalla parte dei barbari”. Eccola ancora la (triste) attualità che emerge evidente da questa storia, ponendola oltre il suo contingente in una dimensione universale. Ottimo film di un grande “vecchio” del cinema italiano. Cinema dal respiro letterario.         

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