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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su This Must Be the Place

di LAMPUR
4 stelle

“C'è qualcosa che mi disturba, non capisco bene cosa, ma mi disturba”.

Facciamo immediatamente nostro il tormentone dell'ex rockstar feticciata da carrello per la spesa o da trolley rotellato, a seconda se a caccia di pizza o di ex nazisti.

Anche se, a differenza del protagonista, cosa ci disturba, noi lo afferriamo benissimo...

Sorrentino ci ubriaca di fotografia laccata, carrellate riflesse, primi piani che fuoriescono dallo schermo, dolly rallentati, cieli tersi, nuvolaglia spaziante, strisce d'asfalto.

E ci soffoca col protagonista Cheyenne (uno Sean Penn bello carico di trucco theCuriano  - molto Richard Benson a dir la verità...-), coi pori rugosi in primo piano, lento come un bradipo a fine corsa; chitarrista che non musicheggia più,  che dispensa pillole di saggezza forrestgumpiana ed ha sulla coscienza due giovani vite che hanno preso troppo sul serio i suoi deliri giovanili di rocker ribelle; icona che vive apparentemente ai margini delle convenzioni, ma è stracarico di soldi - eredità dei fecondi tempi rockettari - e se la diverte in borsa (come certi olmiani centochiodari...); anche se l'episodio di stizza al supermercato non giova certo alla certificazione del  suo stato di apparente carisma inscalfibile.

Non vede il papà da trentanni (il quale non ha mai visto lui, invece, di buon occhio, col rossetto ed i capelli lunghi già in età adolescenziale), niente figli ma solo una mamma/moglie che se lo coccola beata (e certo, con tutti quei piccioli me lo coccolavo pure io il Cheyenne svagatello...).

Quando arriva notizia dell'imminente dipartita dell'anziano genitore malato in quel degli States, urge partenza dall'Irlanda (in nave perché c'abbiamo paura anche dell'aereo oltre che di noi stessi...).

Non arriverà in tempo ma gli verrà reso noto che il papà, ex internato nei lager, dava la caccia al suo aguzzino probabilmente sopravvissuto negli Usa.

Inizierà un road movie affatto atipico, visto mille volte, con le pompe di benzina monumentali stagliate sulle solite nuvolaglie spazianti, i cieli tersi e le strisce d'asfalto (...come sopra); ed ancora i tagli in controluce, i tutti uguali motel spartani, e le tutte  identiche tavole calde.

Eppoi personaggi improbabili, a fatica collocabili in un contesto che non voglia omaggiare il “sopra le righe a tutti i costi”, tipi e siparietti che s'accavallano in forzata escalation, tra in­serti di poesia intimista e revisioni d'anima a ritmi di rock nostalgico, fino all'incontro finale col persecutore più macchietta di tutti, che esorcizzerà fantasmi impantanati ed ingorghi d'anima - dal suo soggettivissimo punto di nazi(vi)sta - facendo outing con l'anonimo  episodio che lo vide insensibile (?!) protagonista col padre di Cheyenne.  The End.

A noi, stavolta, Sorrentinotuvòfalamerricano, dà l'impressione di inciampare come il pattinatore a rotelle che piroetta dentro Central Park, metafora contorta di una cinematografia che vorrebbe elevarsi a manifesto cerebrale incartandosi nella sua ambiziosa missione.

Salviamo giusto David Byrne in lieve cameo e gradito videoclip autopromozionale.

Presenza probabilmente negoziata in fase precontrattuale, esibendo Sean Penn e, perché no, pure la figlia di Bono, su un piatto della sbilanciatissima bilancia...

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