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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su This Must Be the Place

di ed wood
4 stelle

Alla sua prima fatica americana, possiamo pure sostenere che Sorrentino sia un “regista finito”? Ahimè, credo proprio di sì. L’involuzione del suo cinema, cominciata con “L’amico di famiglia”, pare inarrestabile. Più passa il tempo e più ci si rende conto che “Le conseguenze dell’amore” è stato un fuoco di paglia, per quanto ardente come pochi altri nel cinema contemporaneo. Fermo restando che già in quella sfolgorante opera seconda datata 2004 si potevano scorgere le prime avvisaglie del declino (certi autocompiacimenti, certi ammiccamenti all’estetica del videoclip o dello spot pubblicitario, certe trovate pseudo-dadaiste del tutto fini a se stesse), si trattava comunque di un’opera ricca di ispirazione, a tutti i livelli: per le invenzioni figurative, sempre espressive, sempre originali, ma anche per i risvolti esistenzialisti per nulla banali e, soprattutto, per i dialoghi di raro acume ed ironia. E così, Titta di Girolamo passò da maschera inerte a complesso personaggio tragico. Si può dire lo stesso del Cheyenne? No. Resta una maschera, coi suoi aforismi (sempre meno divertenti, sempre meno spiritosi), con le sue fissità, con le sue fisime. Per quanto Sean Penn si sforzi di insinuare una sotterranea dimensione di sofferenza, il suo personaggio resta ingabbiato in un’improbabile figurina pop (ma insomma, cosa suonava da giovane? A occhio, parrebbe dark-punk/new-wave, ma poi si tira in ballo Jagger…mah!) da una sceneggiatura senza spessore e da una regia sensazionalista. Il senso di colpa per aver “indotto” al suicidio due ragazzini coi testi deprimenti di una sua canzone si dovrebbe annodare con quello per aver trascurato il padre per 30 anni e dovrebbe trovare una catarsi in una caccia al nazista: insomma, tre tematiche fra le più abusate di tutto il cinema si ritrovano frullate in una progressione ben poco avvincente, per poi tirare in ballo, tutto ad un tratto nel finale, niente meno che…Dio! Film pretenzioso, superficiale, mediocre, dimostra ancora una volta quanto sia difficile fare “cinema grottesco”, specialmente se alla basa manca la cosa più importante: il pensiero. Il pattinatore in tutta blu attillata che inciampa nel parco, il caprone che appare verso la fine, il pellerossa in giacca e cravatta che chiede un passaggio: tutto ciò avrebbe a che fare con una “idea”? con un “pensiero”? con una “poetica”? o sono solamente immagini bizzarre, fini a se stesse? Fate un po’ voi…Non bastano le performance degli attori, né il brillante cammeo di David Byrne a salvare il film dal naufragio, né purtroppo la bellissima (finalmente, dopo due ore di film!) sequenza finale, con la resa dei conti, l’amarezza per una giovinezza rubata e quel vecchio corpo nudo in mezzo alla neve, sorta di contrappasso per gli orrori dei lager, un’immagine degna del Sorrentino di 7 anni fa, che fa rimpiangere il film che avrebbe potuto essere. Un ultimo appunto: qualcuno ha accostato questo film di Sorrentino a quelli “americani” di Wenders…are you kiddin' me?! ;-)

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