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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su This Must Be the Place

di ROTOTOM
8 stelle

Cheyenne è una ex rockstar ritiratosi dalle scene da vent’anni e da quel tempo bloccato nel suo personaggio grottesco, abbattuto dalla depressione, sepolto nel lussuoso catafalco della sua magione irlandese. Alla notizia della morte del padre, con il quale non ha avuto nessun tipo di rapporto da decenni. Cheyenne  decide di intraprendere un viaggio attraverso gli Stati Uniti per proseguire la ricerca del  criminale nazista che il genitore invano aveva portato avanti per tutta la vita.


La ricetta del film grottesco è inserire un soggetto estraneo in un contesto di normalità. Una rockstar viziata e abituata a vivere per inerzia sulla spinta della gioventù strinata da eccessi e successi, si ritrova a confrontarsi con l’Olocausto, aberrazione nella quale i pochi sopravvissuti hanno conosciuto la necessità del sopravvivere con pena di una gioventù bruciata tra orrori e sopraffazioni. Gli opposti si attraggono, inesorabilmente, la discesa dall’olimpo di Cheyenne al mondo (ir)reale  coincide con la ricerca di un sé smarrito.
 Il mondo del padre, la comunità ebrea legnosa e inflessibile, collide con la vacuità eterea e incomprensibile (anche per Cheyenne) del suo mondo placcato d’oro, della sua maschera ferma ad un tempo che fu.  Il criminale nazista posto di fronte alla triste figura truccata in modo bislacco è ciò che scatena l’energia necessaria per il cambiamento, il punto di rottura.  

Visivamente molto potente, This must be the place è impastato di tragedia e commedia, un film di smarrimenti e riconciliazioni sospeso dai fili invisibili della poesia e del non sense, nonchè marchiato da scelte registiche molto forti. 
Sorrentino reduce dal successo planetario de Il divo, film per cui ha ricevuto, ricambiandole, le avances artistiche di Sean Penn, mette tutto il suo cinema visionario al servizio del divo americano disposto a tutto pur di farsi spalmare sullo schermo dai grandangoli spericolati del regista italiano.
Un rapporto d’amore, This must be the place, tra due che si piacciono tanto e che stanno imparando a conoscersi e quindi danno tutto, forse troppo. 
Cheyenne ha la maschera dallo stupore alieno di Edward mani di forbice montato sulla fisicità usurata e goffa di un Ozzie Osbourne, una rockstar suo malgrado. Ispirato al leader dei The Cure, Robert Smith, di cui mutua il cognome, il divo decaduto si mostra al mondo attraversando manciate di umanità disparate delle quali diventa il termine di paragone e cartina tornasole delle nevrosi.
 Peter pan dark di un’isola che non c’è (più) e intimamente ironico quanto insofferente, il mondo gravita attorno alla sua figurina nera, emo-chapliniana, dove al posto del bastone si ritrova un trolley che funge da cordone ombelicale agganciato al passato che si lascia alle spalle.

 Il lavoro di Sorrentino è quello di fare trovare il giusto approdo  estetico alla figura grottesca del personaggio, in balia delle correnti di una nuova, insperata vita.
 Grandangoli costantemente puntati sul paesaggio che deformano la realtà in una cornice irreale e dolly che elevano lo sguardo sull’altrove,  panoramiche e tagli di inquadrature surreali. Un moto perpetuo  affascinante e stordente si avviluppa alla fissità del protagonista,  schianta le pause e le sospensioni narrative in singoli frammenti di altissima qualità pittorica.
La cavalcata lenta della rockstar attraverso il mondo (ir)reale è altrettanto mutuata dall’iperrealismo con cui Sorrentino riprende gli attimi della sonnolenta normalità della provincia americana.
 
E’ molto bravo, Sorrentino, e sa di esserlo.
 “Ci sono anch’io” sembra che urli con la telecamera e se si può levare un solo appunto a questo film è quello di avere troppo di tutto anche se gestito con opportuno buon senso per non scadere nella banalità di un’estetica fine a se stessa. Qualche movimento di macchina sembra superfluo, qualche smorfia di Penn a volte è gratuita e almeno un personaggio è scritto con superficialità  (Mordecai,  cacciatore di nazisti che compare e scompare), anche se non tutto collima il film scorre sui binari di un divertimento consapevole e intelligente, colto dal punto di vista cinematografico, profondamente bello dal punto di vista visivo.
 Non mira a mordere, non ha l’ironia e la struttura deflagrata de Il Divo o la tragicità ineluttabile de Le conseguenze dell’amore. E’ una storia strampalata  e lineare che annovera alcuni momenti straordinari, su tutti il concerto di David Byrne che firma anche la bellissima colonna sonora e l’incontro di Cheyenne con il criminale nazista che si fa chiamare anch’egli Smith. 
Gli opposti si attraggono e si riconoscono, il carnefice tesse le lodi del suo ex prigioniero mentre la messa a fuoco selettiva scioglie Cheyenne sullo sfondo riducendolo a macchia indistinta sul muro. E poi una foto che sembra uno sparo.
 Ci sono grandi momenti, ci sono grandi pause. Dopo tutto è un’opera prima e qualche leggerezza enfatica di troppo gliela si può perdonare.
 Da segnalare anche le perizie tecniche che impreziosiscono la pellicola. La fotografia superba di Luca Bigazzi  e il montaggio straordinario di Cristiano Travaglioli da Reggio Emilia. Puntiamo a qualche premio importante, un po’ di campanilismo non fa mai male. Film da vedere assolutamente, se possibile in lingua originale per godere della performance di Penn.
 

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