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Melancholia

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Melancholia

di LorCio
6 stelle

Melancholia è un pianeta finora sconosciuto (si era nascosto dietro al Sole) che dovrebbe lasciare indenne la Terra al suo passaggio. Almeno così sostiene l’astronomo John (un Kiefer Sutherland che ricorda sempre di più il suo babbo), un po’ per rassicurare la fragile moglie Claire (la Charlotte Gainsbourg già vittima di von Trier in Antichrist) e un po’ per non ammettere di essere impotente di fronte alla tragedia. Al contrario, la cognata Justine (eccellente Kirsten Dunst) sente che qualcosa sta per accadere. Parla bene lei, che ha mandato all’aria il proprio matrimonio a due ore dal “sì”, senza una ragione concreta: che c’entri il passaggio del pianeta, evocato dal fulgore di una costellazione dello Scorpione?

 

E così, tra l’apologo e la metafora, Lars von Trier mette in scena la sua personalissima fine del mondo piazzando nella prima parte della storia una delle sequenze più insostenibili di tutta la sua filmografia (s’è tirato in ballo, a ragione, quel Festen che inaugurò il Dogma 95 assieme a Idioti): l’interminabile (partito anche con ritardo a causa di simbolici problemi con la limousine) matrimonio di Justine e Michael (Alexander Skarsgård dalla bellezza antica), immerso nello sfarzo austero ed algido della grande villa di John e Claire, dominato dalla noia dei discorsi di auguri (si salvano la magistrale partecipazione della madre ingrata Charlotte Rampling, per quanto caricaturale, e l’intervento dello svagato papà di John Hurt) e dalle pedanterie dell’organizzatore di grido (il buffo Udo Keir).

 

Per almeno un’ora non capita nulla (la storia si regge sugli sguardi smarriti della Dunst, che crolla lentamente e disgraziatamente in un turbinio di dubbi, incertezze, silenzi, baci, balli sussurri e grida) e non si capisce fino in fondo per quale motivo Justine entri in una crisi irreversibile (mancanza di modelli familiari? incomunicabilità sentimentale? generica crisi esistenziale? assenza di amore?), finché forse si comprende che in Justine si riflettono lo strazio e la rassegnazione dell’umanità che si dirige verso la fine. La seconda parte è dedicata alla sorella apparentemente più dura, ma la storia continua ad appartenere a Justine, che compare come un angelo della morte a cavallo.

 

Film come Melancholia implicano tutta una serie di rimandi che fanno la gioia dei cinefili, Andrej Tarkovskji (Lo specchio, Sacrificio) su tutti. Probabilmente non si può parlare del film dimenticando una stimolante tradizione artistica dedicata al tema messo in scena da von Trier, come se questo strano ibrido di dramma e fantascienza sia soltanto un’ennesima, necessaria variazione sul tema. Per quanto mi riguarda, prediligo una visione più laica, in questo caso priva di suggestioni esterne, di aspettative e di paragoni. L’idea di fondo che mi ha accompagnato all’uscita dalla sala riguardava esattamente il senso del film nella sua totalità. Sembrerà banale, banalissimo se vogliamo, ma è una domanda che mi ha attanagliato lungo tutte le spesso faticose due ore e dieci minuti di proiezione.

 

Melancholia è un film evidentemente ambizioso, assolutamente complicato, naturalmente enigmatico, lontano dalle logiche imperanti del commercio (e qui ci stiamo) e dei parametri dell’autore (e qua ci starebbe benissimo una signora discussione sulla magnifica, eclettica ed eccitante incoerenza artistica del nostro), che riafferma violentemente il ruolo fondamentale dell’autore come demiurgo (il film appartiene a lui e soltanto a lui). Parte con dieci minuti introduttivi che toccano le vette del sublime, difficilmente dimenticabile anche per lo splendido utilizzo del Tristano ed Isotta (tema ricorrente in un crescendo di tensione non indifferente); poi cade, s’ingarbuglia, annoia; e infine si riprende, con calma tesissima, quando la catastrofe sembra allontanarsi per poi ripresentarsi.

 

L’ultima mezz’ora di Melancholia è una struggente sonata sulla disperazione (Claire) che fa da contraltare ad una paziente sinfonia sull’attesa (Justine). Anche il più irriducibile detrattore di von Trier non può negare alla sua opera un misterioso fascino, un’indecifrabile e incostante bellezza, un cupo fulgore. Ma io, personalmente, il film, come dire, non l’ho sentito fino in fondo, e quasi mi dispiace.

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