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Le stelle inquiete

Regia di Emanuela Piovano vedi scheda film

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La recensione su Le stelle inquiete

di OGM
7 stelle

La pesanteur et la grâce.  È l’estate del 1941 quando il filosofo Gustave Thibon e sua moglie Yvette accolgono, presso la loro fattoria, nel sud della Francia, una giovane insegnante di origini ebraiche e fede marxista. Il nord del Paese è in mano alle forze di occupazione tedesche, alle quali è politicamente allineato anche il governo di Vichy. In una situazione del genere non ci vuole molto, a finire in carcere.  Basta dimostrare di pensarla diversamente, di essere dalla parte degli operai, dei poveri, degli indifesi. È sufficiente decidere di andare da soli controcorrente, fuggendo dalla massa, per correre incontro alla gente,  a quella invisibile e sofferente, che avvicina a Dio e al concetto di eternità. Simone Weil era una donna  dalla grande forza morale, però fisicamente minuta e dall’aspetto dimesso: una minuscola particella di tenace umiltà, che voleva sperimentare sulla propria pelle la condizione degli ultimi, di quelli che, per i più, non esistono, ma che, in realtà, sono i potenti sovrani di un regno pieno di cose semplici, e al contempo magiche e misteriose.

Per apprezzare il film di Emanuela Piovano bisogna essere ben determinati a grattare via la patina ruvida dell’apparenza, per affrontare la pericolosa avventura di guardare dentro all’anima del mondo. L’ambientazione agreste, dettata dalle circostanze biografiche della protagonista, risulta perfettamente funzionale al principale obiettivo artistico dell’opera: ricordarci che una scorza scabra e friabile è l’involucro naturale della spontaneità, delle piante che nascono e crescono in campagna, fragili e selvagge, libere ed esposte agli umori del tempo. Simone si esprimeva con raffinata spavalderia, con una poeticità impastata di salutare crudezza: la sua sensibilità era quella prodotta dal bruciore delle ferite mai sanate, mantenute aperte dal desiderio di far penetrare, in quella dolorosa fessura, il vento proveniente dal cielo.  Rimanere leggera e sottile, per continuare ad essere come uno stello scosso dalla brezza, sempre partecipe ai più piccoli spostamenti dell’aria circostante: questo è il filo conduttore di una disciplina di vita che all’esterno può sembrare inutilmente autolesionistica, ma che, invece, corrisponde ad un instancabile impegno di sublimazione del proprio essere. Simone puntava ad alzarsi in volo, ben sapendo che, per decollare, bisogna partire dal basso, dal terreno, dove la gravità comprime le correnti che, tornando su, sollevano le ali. Non è possibile raccontare Simone Weil senza assecondare la meccanica ritmica e inquieta dellae leggi fisiche, senza imitare quei coraggiosi colpi di scalpello, inferti un po’ alla cieca, con cui lei cercava di modellare la propria interiorità. Tale è lo spirito severo ma stravagante che pervade questo racconto, con la recitazione giustamente impostata su un tono genuino e incerto, a metà strada tra realismo psicologico e dilettantesco pathos. Il ritratto ha una cornice di legno grezzo, dentro i cui confini tutto riesce a trovare posto: la curiosità non teme, infatti, lo scomodo affollamento delle idee più diverse, per lo più improvvisate, e, anzi, si diverte, tristemente, ad accumulare, sulle deboli spalle dello studioso, il peso insopportabile di troppe, tormentose domande.  

 

Il tempo fa violenza; è la sola violenza. Un altro ti cingerà i fianchi e ti porterà dove tu non vuoi andare; il tempo ci porta dove non vogliamo andare. Che mi si condanni pure a morte: non sarò giustiziata, se, in quell’intervallo, il tempo si fermerà. Qualunque atrocità possa succedere, si può forse desiderare che il tempo si fermi, che si fermino le stelle?

 

(trad. da La pesanteur et la grâce,  una raccolta di scritti di Simone Weil, a cura di Gustave Thibon)

 

 

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