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Le avventure di Tintin. Il segreto dell'Unicorno

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Le avventure di Tintin. Il segreto dell'Unicorno

di lussemburgo
8 stelle

Primo tomo di una trilogia progettata e realizzata da Steven Spielberg e da Peter Jackson con la tecnica della motion capture e in 3D nativo, il film inaugurale inizia già come prosecuzione delle numerose avventure di Tintin, reporter di discreto successo e notorietà, condensate in una sigla di testa che accentua la terza dimensione, pur nella linearità e nello schematismo dei disegni. Il passaggio dalla carta al cinema e alla profondità aggiunta è già tutto in quella grafica epurata dei titoli iniziali, fatta di linee e di silhouette, in moto perpetuo su base musicale con continui passaggi di asse e gioco sulle apparenze.
E la capacità narrativa di Spielberg prosegue nella prima scena, costruita cinematograficamente per indizi e sineddoche, che introduce l’ambientazione e la mobilità della macchina da presa, presenta personaggi già noti con la consueta maestria ironica e, infine, avvia la stessa narrazione, ormai in medias res per gli stessi titoli. Perché è già evidente che la trilogia stessa non è che una concatenazione di avventure, arbitrariamente suddivise in capitoli che frazionano un’unità narrativa e visiva instancabilmente continuativa. È infatti la stessa modalità di ripresa, con l’avvalersi della combinazione di movimenti catturati e di accentuazione della tridimensionalità, a fare del film un imperterrito continuum di azione che la semplice ripresa dal vivo non avrebbe premesso. Ne risulta la visione funambolica e incessante di un moto perpetuo, di un arabesco di movimenti di macchina e di personaggi, in cui ogni fantasia si traduce in realtà simulata. Così nemmeno il film termina con i titoli di coda, ma avvia immediatamente il suo seguito con una fittizia soluzione di continuità dovuta alla distribuzione scaglionata dei tre film.

Ma è il suo stesso virtuosismo tecnico, mirabile per il realismo di sfondi e per credibilità dell’animazione, a rendere eccessivo l’insieme, a ricercare con affanno la sorpresa e la meraviglia come unica forma di comunicazione. E questo stupore indotto finisce per stancare, per distrarre dalla qualità stessa della tecnologia, così evidente nel primo piano, per sacrificare il film, rovinarne la componente puramente cinematografica diventata accessoria.

Il rocambolesco assunto a norma soffoca il racconto, la tecnologia tradotta in medium completo e onnicomprensivo assuefa pur volendo strabiliare, annullandosi a vicenda. Tutto funziona nel film, ma arranca e si perde per superfetazione e per eccesso, si dilata oltre l’inverosimile di circostanza per diventare un luna park di svariate attrazioni, tutte troppo ravvicinate. E la pellicola diventa un parco a tema nato per stupire e garantire la riconoscibilità del marchio, non dell’artigiano che lo realizza e che infatti cambierà al prossimo giro.

Dopo quel mirabile inizio, il film, sebbene tra i migliori sfruttamenti del 3D, non rimane all’altezza della qualità complessiva di Avatar e del suo universo avvincente e avviluppante. Il fumetto prende vita ma la perde precocemente relegando lo spettatore al ruolo passivo di fruitore infantile, frastornato e rapito nella coazione a seguire quelle acrobazie della tecnica cercandovi un appiglio di resistenza e di attrito che continuamente gli sfugge nella lussureggiante combinazione dei numeri da circo.

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