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Cave of Forgotten Dreams

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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La recensione su Cave of Forgotten Dreams

di OGM
10 stelle

In questo  film di Werner Herzog c’è un rinoceronte con otto zampe. E uno stambecco con tante corna. Dipinti su una parete di roccia dalla superficie ondulata, soggetta a giochi di luci ed ombre. Un esperimento di animazione tridimensionale. Risalente a 32.000 anni fa. Le pitture rupestri scoperte nel 1994 a Vallon-Pont d’Arc, nel sud della Francia, sono, di gran lunga, le più antiche mai ritrovate. Una testimonianza, incredibilmente lontana nel tempo, di un’arte figurativa raffinata, in cui al realismo delle riproduzioni si aggiungono effetti ottici e dinamici, e anche acustici, come il suono dei nitriti, evocato dalle bocche aperte dei cavalli, o il rumore degli zoccoli di un bisonte in fuga. Una prova di protocinema che ci è giunta per miracolo, perché una frana l’ha imprigionata per millenni nel cuore di una montagna, preservandola dal sole, dal vento, dalla pioggia, dalle variazioni della temperatura e del tasso d’umidità. Quella traccia è talmente fragile che il respiro umano e il calore delle lampade la potrebbero cancellare: per questo motivo la grotta che la ospita non è mai stata aperta al pubblico. Werner Herzog ha avuto il privilegio di entrarvi, per poche ore,   con un piccolo gruppo di ricercatori e cineoperatori, ed ha filmato quel gioiello: un muto tesoro di sogni per sempre perduti, sepolti dal tempo, racchiusi in disegni meravigliosi, che parlano di sé, delle proprie forme e dei propri colori, suggerendo scenari selvatici e forse mitologici, però nulla rivelano degli uomini che li hanno creati. L’anima di quel luogo è il silenzio, profondo come quel passato tanto remoto da non poterlo immaginare.   Si ode solo il ticchettio del gocce che cadono dalle stalattiti, che si confonde col battito del proprio cuore. O forse è la primordiale pulsazione di una vita racchiusa in immagini, che si sovrappongono ritmicamente, producendo un’illusione di movimento: il primo passo di un cammino, il cenno di una testa che si alza. In quei contorni neri, riempiti di cangianti sfumature grigie, si coglie il profilo di un’idea intelligente, di un rapporto con la realtà che parte da una curiosa ammirazione, e prosegue con un inizio di interpretazione analitica ed estetica. Una conoscenza che cattura la bellezza, e la filtra attraverso il proprio essere. Come nel romanticismo, che si nutre di visioni del mondo tradotte in complessi paesaggi interiori.  Una volta, prima che uno smottamento ne bloccasse l’entrata, quella caverna era uno spazio liberamente accessibile: però gli uomini non vi si recavano per abitarvi, ma solo per dipingere. Non sono state trovate ossa umane, tra i tanti scheletri  calcificati di animali (orsi, iene, cavalli) di cui è disseminato il suolo. Quello era solo un luogo di passaggio, o  forse una sede adibita ad un preciso scopo, che si visitava solo per dare sfogo alla propria creatività, o alla propria necessità di esprimersi.  Una creatività ed una necessità evolute, perché disgiunte dalle esigenze di  utilità pratica, di costruzione di utensili o di scambio di informazioni; e indirizzate verso una comunicazione di stampo indipendente, svincolata dalle formule linguistiche della comunità,  e tesa a “far capire le cose in maniera indiretta”, attraverso il linguaggio allusivo delle suggestioni.  La meraviglia che si prova, di fronte a quell’universo sotterraneo, non deriva tanto dall’intrigante brillio delle formazioni cristalline, o dall’originale armonia delle formazioni calcaree, quanto dal fatto di vedere e non comprendere: di distinguere chiaramente i segni lasciati dagli eventi, ma di non poterne afferrare il senso. La scienza arriva a ricostruire le cause, ma non a spiegare le ragioni, dei vari fenomeni,  pur così minuziosamente descritti: le ragioni di quelle  macchie rosse impresse su una pietra dalla mano di un uomo alto un metro ottanta, che aveva il mignolo storto;  o delle sagome di buoi praticamente identiche, disegnate una sopra l’altra, ma separate da un intervallo di cinquemila anni, oltre che dai solchi provocati dalle unghiate di un orso.  L’impressione di Werner Herzog è  che quanto accaduto in quella caverna - in cui, irrazionalmente, si avverte ancora la presenza degli uomini primitivi e ci si sente davvero osservati - sia stato, per la nostra specie, l’improvviso e magico avvio di qualcosa di completamente nuovo e straordinario:  qualcosa che, là dentro, è rimasto impresso in uno strano dipinto, che fonde i tratti di un testa di toro e di un corpo femminile, con lo stesso stile di Picasso; e qualcosa i cui indizi sono sparsi anche nelle regioni circostanti, ad esempio nella Germania sudoccidentale, dove è stato rinvenuto un flauto preistorico, ricavato da un osso di avvoltoio, che produce perfettamente i toni della scala pentatonica. Per cercare di capire cosa, esattamente, sia avvenuto, mentre l’Europa era coperta dai ghiacci e l’uomo di Neandertal si aggirava ancora nelle sue foreste, c’è chi si affida alle tecnologie digitali, come i paleontologi di oggi, che ricorrono alle immagini computerizzate;  e chi, semplicemente, si affida agli odori, come quel famoso profumiere francese con la passione della speleologia, il quale è in grado di “fiutare” le grotte. Werner Herzog propone, come potente strumento alternativo, quello dell’immaginazione, la sola facoltà umana che possa far rivivere ciò che è stato irrimediabilmente perduto. Essa consente di recuperare il passato attraverso i sogni di chi non esiste più da millenni: sogni che sono ancora ben presenti e palpabili in noi, perché quelli sì, sono davvero eterni, indifferenti al tempo, alla storia ed alla stessa morte. Cave of Forgotten Dreams, più che un documentario, è un viaggio esplorativo del pensiero, che parte da una scoperta sorprendente per aprire la strada alla fantasia e al mistero; ed introdurre una meditazione sull’arte, che  credevamo fosse un folle e superfluo prodotto della civiltà, e che magari, invece, è solo, banalmente, una primitiva attività scritta nei nostri cromosomi e perfezionata dal processo di adattamento. Ma che forse, considerata in questa veste atavica e selvaggia, ci affascina  - e ci inquieta – infinitamente di più. 

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