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La fuga di Martha

Regia di Sean Durkin vedi scheda film

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La recensione su La fuga di Martha

di spopola
8 stelle

I think as a child I was really afraid of groups that conformed. Cults were really an example of that. I'm attracted to fear. I'm attracted to movies that scare you. I knew I would just end up working in that realm. (T. Sean Durkin)

 

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene in originale) ha meritatamente vinto il premio per la miglior regia al Sundance Film Festival del 2011, portando con prepotenza in primo piano il nome di un giovane interessantissimo filmaker come T. Sean Durkin che mostra già con questa sua pellicola, qualità straordinarie e inusuali di introspezione empatica nel mettere in scena una storia che si potrebbe definire l’analisi psicologica della labile e complessa personalità di una donna, raccontata con un linguaggio che è al tempo stesso asciutto e inquietante. Un regista insomma che sembra possedere un talento quasi istintuale, oltre che una insolita curiosità indagativa che gli consente di scandagliare un inconscio fortemente devastato dagli eventi e dai soprusi, in modo originale e stimolante, ma senza rinunciare a una altrettanto puntuale e attenta accuratezza  “sintomatologica” tutt’altro che sensazionalistica finalizzata a privilegiare i dettagli (anche quelli percettivi) di una deriva mentale, degna della precisione di uno studio che potrebbe essere definito di entomologia sociale, visto che il “privato” per quanto possa risultare tragico e disturbato, non è poi mai del tutto avulso dal contesto generale che gli ruota intorno.

Il film si presenta infatti come un angosciante diario di sopravvivenza che tenta di ricostruire fragili equilibri e (im)possibili punti di contatto con il mondo esterno dopo una rottura “traumatica” e per molti versi insanabile, e lo fa con una modalità tutta sua e decisamente singolare che, se da una parte sembra voler in un certo senso citare  (o per meglio dire “rifarsi” e da lì ripartire) l’Altman dell’indimenticato (e indimenticabile) Tre donne a cui si riferisce espressamente (è “chiamato in causa” il grande  regista e quella sua opera in particolare, soprattutto per quello speciale tocco di ermetismo un po’ criptico con cui viene tratteggiata la famiglia e la provincia americana che anche qui traspare in assoluta evidenza e che è davvero il modo più concreto che consente di scavare impietosamente e fino alle radici più profonde, dentro l’humus controverso e un po’ “malato” di un paese enigmatico e contraddittorio come si conferma essere ancora oggi l’America, soprattutto nella realtà multiforme della emarginazione solitaria che si sviluppa con preoccupante vigore proprio nella campagna più remota e lontana dai grandi centri della modernità e che qui si identifica in quell’isolata casa rurale all’interno della quale un gruppo di giovani donne aderenti a una delle tante “congregazioni anomale”, si è trovato  in qualche modo ad essere “prigioniero” - anche delle proprie insicurezze - sotto l’influsso coercitivo di un uomo assolutamente dominante e manipolatore che predica l’amore per la morte e la totale sottomissione al suo volere, una condizione inquietante e tutt’altro che marginale nella storia quotidiana delle sette, capace di richiamare la memoria su molti fatti anche tragici accaduti nelle società rurali – e non solo - prive di stimoli e di prospettive), dall’altra sembra invece aver perfettamente (e magnificamente) metabolizzato  la complessità e le sfaccettature antropologiche del cinema di Cassavetes che Durkin – anche autore della sceneggiatura – mostra di aver studiato con  particolarissima attenzione non tanto per emularlo, ma per estrarne i succhi. Due modalità quasi contrapposte di intendere la messa in scena ed il racconto insomma,  che qui “miracolosamente” e grazie all’abilità di chi “conduce il gioco”,  non entrano mai in rotta di collisione fra di loro, ma anzi si implementano a vicenda.

Lo stile alterna infatti con perfetto tempismo, realismo e allucinazioni riuscendo persino ad amalgamarli fra di loro, e questo consente al regista di incanalarsi ancor  più radicalmente dentro un smarrimento sentimentale che non diventa mai “caso clinico” privato, ma si identifica invece in un universo mentale che sembra voler seguire l’evoluzione (anche terapeutica) di una storia decisamente più emblematica che – forse proprio per questo - resta comunque e fino in fondo, molto complessa e (volutamente) irrisolta fra le percezioni sempre più alterate della protagonista e la confusione crescente dei ricordi rimasti affastellati nella sua mente che brutalmente riemergono con intermittenza alternata e spesso stralunata. La suggestiva vocazione del regista, è dunque quella della rarefazione che spinge il pedale verso atmosfere sempre più opprimenti che dilatano ulteriormente smarrimento e confusione amplificando notevolmente anche il senso del disagio e della paura che può sfociare spesso nella paranoia.

Il percorso – tutto interiore – è di conseguenza concentrato su tematiche davvero molto forti come la manipolazione estrema dell’individuo e la frantumazione dell’io (inteso come “personalità e autostima) che proprio nella silenziosa coesistenza del dolore con l’altrettanto spiazzante perdita di sé mischiata con insostenibili “sensi di colpa”, sembra voler significare e porre in evidenza proprio il pericolo che deriva dalla cancellazione di ogni principio e valore, ma anche dalla (in)cosciente rinuncia a privilegiare e difendere simili prerogative, che alla lunga può portare a un disgiungimento totale dal “reale” difficilmente ricomponibile. Un lavoro però tutt’altro che “astratto e cervellotico” che il regista, evitando giustamente di ricorrere a  schematismi soffocanti e troppo rigidi sempre fortemente riduttivi, concretizza con l’impietosità analitica del racconto e realizza in immagini di grande presa con una messa in scena raffinata e al tempo stesso naturale, che privilegia le tinte pastello e possiede una sottile, avvolgente grazia disarmante e un po’ minimalista, puntualmente contrappuntata e resa più pregnante, dalle eleganti “invenzioni”(le canzoni e i pezzi musicali) di Jackson C. Frank, autore della suggestiva colonna sonora. 

Durkin, concentrandosi soprattutto sugli scontri fra generazioni e sulle sensazioni contraffatte, in questo disturbante viaggio dentro l’instabilità, è bravissimo a catturare e descrivere l’angoscia del vivere, il rifugio nell’isolamento e l’incomunicabilità crescente che circonda cose e persone. Ci fornisce così di conseguenza - evitando intelligentemente le possibili e sterili derive di furori schizofrenici fini a sé stessi - un ritratto inquietante e doloroso di una paranoia capace di far emergere  tutte le inquietudini che sfociano nelle ansie del quotidiano, dall’insoddisfazione, dal sentirsi inadeguati,  e generata soprattutto e principalmente (ma non solo) dall’incapacità di adattarsi alle regole.

Un film insomma che con uno sguardo per molti versi “innocente” più di quello che ci racconta (totalmente privo com’è di insistite morbosità sempre in agguato in casi come questi) e un senso di estraneità criticamente attivo nella percezione, si concentra principalmente sui gesti meccanici e ripetitivi generarti dall’inquietudine, e punta così sull’inevitabile spaesamento anche tattile, dovuto alla  cancellazione delle memorie (razionale e non), riproducendo il tutto (cinematograficamente parlando), attraverso la reiterata evidenziazione di gesti e di ossessioni  quasi ancestrali, tanto che nella pellicola il senso di pericolo e di insicurezza, pur chiaramente avvertito anche in forma crescente e perturbante, scaturisce “magicamente” più che da fatti eclatanti,  proprio dai piccoli  insignificanti dettagli della quotidianità “alterata”, dai tic, dai riflessi, perché questa alla fine può essere definita anche una storia che parla di segni, di simboli, di tracce che si accumulano e crescono fino a diventare fissazione monomaniaca con una tensione e una ambiguità degne della migliore tradizione del thriller (qui al servizio però di un’opera di straordinaria, profonda e sconsolata umanità).

Un gran bel film alla fine, dove è proprio lasciato allo spettatore il compito di “tirare le fila” di un argomento così tragicamente trasversale, ma difficile da sviscerare e definire nelle sue specifiche, personali valutazioni emozionali che vanno ben oltre la suggestione, la coercizione, la dipendenza e il masochismo.

 

La storia è quella di Martha, una ragazza che dopo aver trascorso due anni con una setta religiosa (riferimenti  ai fatti di Waco?) vittima di violenze psicologiche e sessuali di ogni tipo, cerca di ritrovare la serenità perduta fuggendo da quell’incubo per rifugiarsi nella casa e nell’affetto della sorella maggiore e di suo marito.

La ragazza è rimasta però talmente sconvolta dalle sopraffazioni subite, ha sensi di colpa così profondamente radicati, che invece di riuscire a recuperare la necessaria pace nell’apparente quiete ritrovata e godere della serenità protettiva e salvifica della famiglia, sarà da queste memorie sempre più incalzata, fino a imboccare il preoccupante tunnel della persecuzione paranoica dove la figura del leader del gruppo che dovrebbe ormai essere una lontana reminiscenza, rimane invece una concreta presenza ossessiva che lei avverte prepotente e incancellabile nel sentirsi continuamente seguita, spiata dentro un mondo sempre più popolato dai suoi fantasmi che la mente non esorcizza più per quella dimensione alterata fatta di disadattamento e squilibrio psichico che rende impossibile ogni via di fuga (reale o immaginaria che sia) e la costringe a restare chiusa dentro la scatola della sua ossessione e dove il passato riemerge con  prepotenza maniacale per confondersi col presente in un susseguirsi infinito di presenze inquietanti pronte a risvegliarsi e a travolgerla nella totale distorsione che diventa sempre più una specie di follia cosciente, con le sue sacche irrisolte dentro una matassa non del tutto districata.

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