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La fuga di Martha

Regia di Sean Durkin vedi scheda film

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La recensione su La fuga di Martha

di OGM
6 stelle

Il dramma del plagio. Del lavaggio del cervello operato da un guru ai danni di tante ragazze instabili e ribelli, fuggite da casa per unirsi ad una sedicente comunità religiosa. La principale fonte ispiratrice sembra essere il caso di Waco, Texas (con qualche intersezione con la vicenda di Charles Manson): una cascina isolata nella campagna americana, dove un gruppo di giovani donne è in balia del potere carismatico di un uomo, un certo Patrick, che predica la sottomissione e l’amore per la morte: La morte è la parte più bella della vita. La morte è meravigliosa, perché tutti abbiamo paura della morte. E la paura è l’emozione più straordinaria, perché produce una completa consapevolezza. Quando hai paura, sei costretto ad essere perfettamente cosciente di ciò che ti circonda e del momento che stai attraversando. Ciò ti porta  all’“adesso” e ti rende realmente presente. E quando sei realmente presente, ecco, quello è il nirvana. È puro amore. Quindi la morte è puro amore.

Martha cade nella trappola. Per mesi vive in quel luogo sinistro sotto il falso nome di Marcy May, impostole da Patrick al momento della sua cooptazione.  Fino a che un fatto insostenibile, in cui ha avuto, suo malgrado, una parte attiva, la convince a darsi alla fuga.  Ospitata in casa della sorella maggiore Lucy e di suo marito Ted, mostra da subito evidenti segni di disadattamento e squilibrio psichico. Il passato continua ad affacciarsi alla sua mente, confondendosi col presente.  In conseguenza dei soprusi di cui è stata vittima, testimone, e infine anche complice, la sua fiducia nel prossimo è definitivamente morta. Il mondo, per lei, è popolato di fantasmi, che anche il più vago riferimento riesce prontamente a rievocare. I numerosi flashback, che questo film apre sull’incubo di Martha, agganciandoli, con naturale continuità, a spunti offerti dalla narrazione, ci presentano una follia che non nasce dalla distorsione della realtà, bensì dalla perpetuazione di quest’ultima, che riecheggia nel pensiero come un enigma irrisolto. Le domande, per Martha, restano tutte aperte, a  cominciare da quella fondamentale circa la distinzione tra il bene e il male. Il giusto modo di vivere è un concetto di cui si deve riappropriare, però non pare minimamente intenzionata a farlo. In lei sopravvive l’abitudine a rifiutare la normalità, per abbracciare la via tortuosa via del sacrificio personale, e rifugiarsi nella segregazione, nell’indifferenza rispetto all’ambiente circostante. Questa potrebbe essere la chiave di lettura psicologica del suo comportamento tra il depresso e il paranoico, che il film, a dire il vero, non riesce ad illustrare con sufficiente efficacia e coerenza, ponendo forse un po’ troppo l’accento sul racconto del vissuto, a discapito della piena espressione del disagio interiore e della difficoltà di relazione di cui soffre la protagonista. Più che mettere in scena un’angoscia, Sean Durkin sembra  voler presentare un’esperienza, descrivendola in tutti i dettagli, lasciando, in fin dei conti, che essa si commenti da sola. Di fronte ad un argomento così ampiamente trattato dalla cronaca e dal cinema, è però lecito aspettarsi un maggiore approfondimento e, soprattutto, un pizzico di originalità in più. Il film è tecnicamente ineccepibile, con alcuni tocchi registici di grande valore, ma, nella sostanza, non dice nulla di nuovo. In mezzo ad un complessivo effetto di déjà vu colpisce, in particolare, la scena in cui Martha ingenuamente viola l’intimità di Lucy e Ted: una situazione che sembra ripresa pari pari da una famosa sequenza di Rain Man. L’impianto di Martha Marcy May è, certamente, un magistrale ingranaggio filmico, in cui tutto fila liscio come l’olio, senza il benché minimo attrito: una mirabile fluidità che, nei momenti cruciali, si arricchisce di una tensione e di un’ambiguità degne dei migliori thriller. Eppure c’è qualcosa che manca, come in un cibo che, invitante e sapientemente imbandito,  stuzzica sì l’appetito, però non sazia la fame.

 

Premio per la miglior regia a Sundance 2011.

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