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La pelle che abito

Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La pelle che abito

di port cros
8 stelle

Sottovalutato fanta-revenge-horror almodovariano dallo stile stranamente algido , vede Pedro allontanarsi dai sentieri battuti del melo per un'intrigante/disturbante variazione sui temi dell'ossessione e del doppio.

 

VOTO: 7,5 su 10

 

Considerato da molti, per me a torto, un film minore o meno riuscito di Pedro Almodóvar, anche qui ha una media relativamente bassa, ad oggi del 6,3. Spero possa essere rivalutato nel tempo perché, seppur non tra le sue migliori, rappresenta un'opera molto significativa nella filmografia del regista spagnolo, che almeno in parte fuoriesce dai sentieri che ama abitualmente battere.

Attenzione perché questa recensione contiene SPOILER che, nel caso in particolare di questa trama, possono compromettere l'esperienza della visione del film.

 

 

Variazione sul tema, almodovariano per eccellenza, dell'ossessione, qui quella di un chirurgo plastico, il dottor Robert Ledgard (Antonio Banderas, dopo due decenni anni di nuovo davanti alla macchina di Pedro), che, dopo aver perso prima la moglie, gravemente ustionata in un incidente stradale e suicida per l'orrore per il suo nuovo aspetto sfigurato, e la figlia, che si è tolta la vita dopo che un tentato stupro aveva esacerbato i suoi problemi psicologici, decide di rapire l'assalitore della figlia, Vicente (Jan Cornet), per farne la cavia di un esperimento di trasformazione e innesto di un nuovo tipo di pelle transgenica.

 

Invece di mostrarci la vicenda in maniera lineare, Almodóvar gioca, come gli piace sovente fare, con la struttura narrativa, mostrandoci nella prima parte la misteriosa ragazza, ironicamente chiamata Vera (Elena Anaya), segregata in una stanza isolata nella villa-clinica del dottore, oggetto del suo voyeurismo e ripresa da un sistema di videosorveglianza 24 ore su 24, con cui tuttavia il rapporto carnefice-vittima pare trasformarsi in un bizzarro attaccamento affettivo, che per il chirurgo affonda le radici nell'illusione di aver artificialmente ricreato la moglie scomparsa. Non ci viene rivelata immediatamente l'identità della donna e perché si trovi lì in quelle condizioni, anzi si gioca a spiazzare le nostre aspettative, facendoci dapprima credere che si tratti della moglie del medico, oggetto di un tentativo di ricostruzione dell'epidermide distrutta dall'incendio.

 

 

Solo nella seconda parte del film si dipana il bandolo della storia, tra flashback, flash-forward, digressioni e sottili indizi visivi che ci conducono allo spiazzante colpo di scena sulla originaria identità di Vera, ed il film disvela la sua natura disturbante di horror e revenge movie, con elementi di fantascienza che accennano ad una riflessione sulle oscure possibilità aperte dallo sviluppo scientifico asservito a fini anti-etici (anche se non è questo il tema principale).

 

Più che all'elemento orrorifico in sè, però, il film si concentra sulla scoperta della perversa ossessione con cui apparentemente ordinario dottor Ledgard tenta di reagire al trauma della perdita e sull'enigma del “doppio” personaggio di Vicente/Vera, vittima di una vendetta atroce che però lo costringe ad accettare ed apprezzare una nuova sé, ad imparare a sentirsi a casa nella “pelle che abita”, scoprendo una parte femminile che forse in nuce è sempre esistita e viene “tirata fuori” dal folle esperimento del demiurgo dottore (il quale può anche essere letto come metafora dell'artista creatore e quindi del regista). Nel finale Vera si ripresenta nel negozio della madre intenzionata a riprendere la sua vita che sarà però inevitabilmente una nuova vita, e viene pure suggerita la possibilità di un amore prima impossibile, in quanto la commessa che Vicente inutilmente corteggiava è attratta dalle donne. Certo l'ambiguità e duplicità sessuale è un tema ricorrente nella filmografia del regista, ma il modo in cui è affrontato in questo film ha pochi paragoni con altre sue opere.

 

Almodóvar adotta (e forse questo spiega la delusione di molti) uno stile registico molto più freddo e trattenuto del solito, un'estetica algida che lascia poco spazio ai suoi abituali eccessi (l'irruzione del folle fratellastro di Ledgard travestito da tigre è una delle poche eccezioni), un tono più dark dove ci si sente a disagio più che ridere e commuoversi come nei suoi celebri melo, fino ad un finale sobrio e sussurrato ("Sono Vicente") ma comunque emozionante. Anche gli attori (tra cui va citata la musa Marisa Paredes nel ruolo della madre segreta/governante di di Ledgard) adottano uno stile interpretativo molto sobrio e pare che il regista durante le riprese abbia espressamente chiesto a Banderas di trattenersi dal caricare troppo l'interpretazione del chirurgo, evitando la rappresentazione cliché dello scienziato psicopatico.

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