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Detective Story

Regia di Takashi Miike vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Detective Story

di Marcello del Campo
8 stelle

TANTEI MONOGATARI CONTRO LA PREVALENZA DEL PLOT

 

locandina

Detective Story (2007): locandina

 

Miike Takashi gioca, ancora una volta con innegabile astuzia, con l’arte di confondere le attese dello spettatore, dosando horror, grottesco e comico, una miscela che è la cifra di tutto il suo eccessivo lavoro di cineasta (una cinquantina di film in venti anni, più short stories, video, serie televisive, produttore, attore) a tutto campo (thriller, horror, mélo, commedie, genere yakuza, western, band giovanili), mai deludente o di scarso interesse, sempre in movimento – nonostante abbia solo cinquant’anni: parafrasando un famoso titolo hustoniano, potremmo dire “Cinquant’anni, cinquanta film, cinquanta progetti in corso”.

 

Il celebre artista Yuki Aoyama da un po’ di tempo ha cambiato stile e a qualcuno non piace la pittura informale, non perché sia datata – le tele di iuta muffa e catrame di Burri sono ancora splendide a vedersi, c’è in esse l’approdo del surrealismo alla pura materia -, ma gli enormi quadri di Aoyama emanano un sentore di morte. Ci mancherebbe: il pubblico non lo sa, ma il grande artista deve essere impazzito, se in segreto, nel suo immenso atelier, lo vediamo armeggiare con pezzi di organi umani, espiantati a giovani donne, trascinare vittime apparentemente rapite a caso.

Il maestro ha cambiato stile dopo la morte per suicidio della moglie, da allora è diventato un ammiratore delle teorie di Rudolf Steiner. E così, le sue opere riflettono ora l’angoscia della vita e della morte: la vita che toglie alle vittime e la morte che somministra in parcelle di organi frullati sulle tele.

 

Siamo in un film di Takashi Miike, non in uno dei soliti thriller che fanno gridare la critica al miracolo dei corpi mutanti cronenberghiani, - anche se le analogie con il regista canadese non mancano, non fosse che il geniale regista giapponese va oltre la metafora di History of Violence e va diritto al crudo della carne macinata e frullata che il buon Aoyama appiccica alle tele con la dedizione di un cuoco esperto in veste di artista.

Body Art, potrei dire: l’insieme sarà pure action painting ma il prodotto finito lascia il riflesso funebre delle foto scattate da Serrano e Witkin alla morgue o delle installazioni di Hirsch – teste spiccate dal busto, morti penzolanti da corde di asfissia autoerotica e altre sniffate di snuff.

 

È notte fonda quando la ragazza allarmata, Manami Inoue, bussa alla porta del detective Raita Kazama. L’Agenzia Investigativa Kazama è uno stanzone disordinato come il locatario. La donna chiede aiuto, dice che le ha dato l’indirizzo Masakuni Nagamine, il collega in detection di Raita. È passata dall’ufficio investigativo e ha avuto l’indirizzo. Raita esita, non è lucido, è ubriaco fradicio, sta festeggiando da dodici ore l’arrivo del nuovo inquilino della porta accanto nel fatiscente abitato, si chiama Raita l’uomo, proprio come lui, Raita Takashima, una coincidenza che lo ha indotto a invitare l’ospite omonimo per darsi insieme a un’orgia alcolica straordinaria.  

 

Raita è un detective fuori di testa, alcolista cronico, uomo bizzarro anche nell’incedere sbilenco, tipico degli sfigati personaggi di Miike Takashi; fisicamente sembra il fratello buono (un po’ scemo) del Ryuichi di Dead or Alive: Hanzaisha (1999), - interpretato da Riki Takeuchi, l’indimenticabile killer in motocicletta, fucile in spalla e posa alla Elvis Presley -, ma Raita Kazama non è affatto uno stupido, come potrebbe apparire con indosso improbabili camicie hawaiane e un cappellino ridicolo calato sulla testa o quando fa il segugio con una parrucca lungochiomata che non inganna nessuno.

Cacciato dalla polizia perché troppo infantile, gigione, rompiballe, Raita conosce il proprio mestiere quanto la dissipazione di se stesso nell’alcol e nella propensione a una leggerezza da clown che i suoi ex colleghi gli rimproverano, tranne chiedergli lumi quando si trovano davanti a un caso intricato, memori del fatto che Raita aveva catturato quindici anni prima un assassino seriale in erba, autore di delitti particolarmente cruenti, un assassino di cinque bambini, una era una neonata. Il bambino killer ora è un uomo, suo padre lo ha collocato in una clinica dopo che il genitore dell’ultima piccola vittima lo ridusse a una torcia umana versandogli addosso la benzina e dandogli fuoco. L’ex baby killer ne uscì sfigurato al punto che vive attaccato a una matassa di tubi, perennemente seduto su una sedia di ferro, il volto coperto da una maschera di cuoio simile a quella di Hannibal Lecter, il corpo soggetto a ulcere vomitevoli da cui escono vermi che lui raccoglie e coccola in una bacinella chirurgica.

Lo humour nero da tavolo operatorio di Miike Takashi sorprende quando meno te lo aspetti, con un fragore silenzioso che fa della scena in cui Raita va a trovare il serial killer una delle più disgustose incursioni nella metafisica dell’orrore.

 

Quattro ragazze sono state uccise con ferocia inaudita. Manami Inoue, la donna che ha chiesto aiuto a Raita la notte prima è stata trovata morta il mattino dopo. Come se non bastasse, non è stato trovato il suo fegato. Il commissario Shiobara, vecchio superiore del detective è arrabbiato perché Raita non ha fatto il suo dovere, non ha aiutato la povera vittima: un ex poliziotto fallito, questo è Raita.

È il momento di agire. Da solo Raita non ce la fa, nomina suo braccio destro il suo omonimo casuale che di professione fa l’impiegato informatico e l’hacker per una azienda di cattiva fama. Chiede aiuto a una vecchia amica detective, Ryoko. Ma il ritrovamento di altre tre giovani vittime sventrate e deprivate rispettivamente del rene, di un polmone, un’altra impiccata a un albero, spingono Raita a consultare il serial killer mascherato (proprio come in Manhunter).

 

 

 

- Riguarda quegli strani omicidi, vero? Cerchi indizi su un maniaco da un maniaco?

- Qualcosa del genere.

- Cerca di capire la sua mente. Proprio come quando hai catturato me.

- Voglio sentire la tua opinione.

- Uccide solo per divertimento?

- Quando succedono cose di questo tipo si pensa sempre a qualche malvagio che lo fa per divertimento. Se tu pensi che gli omicidi efferati siano tutti uguali allora non capirai mai nulla. Per lui, la pazzia non è pazzia.

- La pazzia non è pazzia?

- Giusto. Inoltre, il vero incubo si trova in paradiso. Se tu riuscirai veramente a comprendere questo

allora le risposte arriveranno da sole.

- Polmoni e terra...

- Polmoni e terra!

- Ci sei arrivato?

- Yuki Aoyama è ancora vivo?

- Sì. Certo che lo è.

- Capisco.

- Qualcosa non va?

- No, nulla.

- Yuki Aoyama. Spicca tra gli autori di arte contemporanea. È conosciuto come "Maestro della Tragedia" e come "Artista della Pazzia". Dopo il suicidio di sua moglie, ha cominciato a interessarsi di Steiner. Era particolarmente preso dalle sue idee sull'occulto e il suo stile artistico diventò spettrale ma solennemente unico. Steiner era un pensatore tedesco che influenzò la medicina, la filosofia,la religione e l'arte. Pensava che il corpo umano fosse solo un recipiente e solo inserendoci la vita, l'anima e la coscienza poteva essere considerato veramente un essere umano. Le sue idee sono soprannaturali. Il vero incubo si trova nel paradiso. Se riesci veramente a comprendere questo allora le risposte arriveranno da sole.

 

 

 

Rudolf Steiner è il persuasore occulto degli omicidi.

Quattro organi, quattro elementi naturali della filosofia eraclitea.

ACQUA, ARIA, TERRA, CIELO.

Quando tutti e quattro sono riuniti, si può avere un essere completo.

Il colpevole sta seguendo questo schema raccogliendo gli organi e usando le vittime al posto

dei quattro elementi.

Raita raccoglie tasselli di verità che messi insieme negano la verità.

La detection è difficile, lunga, pericolosa.

Miike Takashi si serve di un plot risaputo di Tsutomu Shirado e dirige un film estremo come Ichi The Killer, comico-grottesco come la serie dei tre Dead or Alive, misterioso come Gozue Izo, crudele come Audition.

Grande performance di Kazuya Nakayama (Raita Kazama), anche in Izo e Kikoku, affiancato da Kuroudo Maki (Raita Takashima), anche in Brothere Il silenzio sul mare di Takeshi Kitano.  

Musica free-jazz form strepitosa che ricorda molto i crepitii e gli stridori del sax alto di John Zorn che, stando di casa in Giappone non poca influenza deve avere avuto sul giovane musicista Koij Endo, il quale ha composto tutti gli score dei film di Miike Takashi dal 1996 a oggi; una musica ‘urbana’ memore dello Spillane del musicista americano.

 

 

 

      

UNA NOTA: CONTRO LA PREVALENZA DEL PLOT. 

 

L’incomprensione critica di alcuni film di genere deriva dagli stereotipi in cui il cinema mainstream li ha racchiusi. Il film di Miike Takashi appartiene alla categoria del rifiuto delle regole, lo stesso rifiuto che oppone Raita all’incapacità della polizia di risolvere il caso delle ragazze sventrate, utilizzando i modi classici della deduzione.

Raita è un irregolare in tutti i sensi: vive in un abituro losco, non ha un metodo di indagine, il suo modo di investigare poggia sulla casualità; non è il detective alla Marlowe, somiglia più a Spade nel cinismo apparente ma non ha la potenza persuasiva (menare botte) dell’eroe hammettiano.

Detective Story, come i film incompresi che non ho ancora citato, ha un antecedente illustre nella versione cinematografica del Lungo Addio di Altman: prevalenza dei tempi morti, incursione del quotidiano (la cura del gatto e altri diversivi). Altman trasgredisce la linearità del plot, immettendo nel corpo del genere ciò che il classico cinema di azione evitava di filmare, ritenendolo puro scarto.

Miike assume gli scarti, il quotidiano negato, così come Herzog nel remake del Cattivo tenente: c’è una scena che la dice lunga in questo film del regista tedesco: qualcuno bussa alla porta, Nicholas Cage impugna una pistola, mentre con l’altra mano si rade con un rasoio elettrico; è una scena volutamente comica che serve a negare il clichè hard boiled e a sottrarsi all’imperio del plot. 

Raita che fa le smorfie, che si cambia di abito, impiegando un tempo reale, che compie gesti negati al genere perché elusivi e ingombranti, minano le fondamenta del canone cui lo spettatore è da mezzo secolo (per dire una data da cui partire) asservito: l’attesa dello scioglimento dell’enigma, impartito tutorialmente-autoritariamente dal plot, al punto che ormai lo stesso spettatore è in grado di capire dove va a parare il finale del film.

Provocatoriamente, Miike ci informa parzialmente ma con sufficienti informazioni, già dalla prima scena del film, su che cosa ci aspetta nel finale, lo anticipa in modo tale che lo spettatore diventa detective, parte in causa e non puro oggetto di persuasione coattiva.

 

Qui giova dire, parafrasando un acuto scritto di Emanuele Trevi, apparso in “Alias” n. 43 del 30 ottobre scorso che “…nell’epoca dell’egemonia del Plot [Trevi scrive “del Romanzo” – a lettere maiuscole] … la produzione di trame e i loro consumi… nel clima asfittico e segretamente autoritario della fiction, i cosiddetti registi [scrittori] muovono i loro pupazzi, più o meno abilmente. Ai cosiddetti spettatori [lettori], dall’altra parte del muro, non rimangono che le squallide prerogative dell’identificazione e del desiderio ottuso e identico a se stesso come una coazione a ripetere, di vedere come andrà a finire.

In nome della prevalenza del Plot, la critica, quasi all’unanimità, ha bocciato film come The Black Dahliadi De Palma, Il cattivo tenentedi Herzog, Shutter Island di Scorsese e per finire The Inception di Nolan.

“E la critica?”, si chiede Trevi. “Basta aprire un giornale qualunque : la critica produce riassunti. Il suo massimo sforzo cognitivo consiste nel non rivelare qualcosa del finale, guastando il piacere.  Al massimo grado del suo prestigio, il critico di oggi è il servo così sciocco e zelante da non avere mai bisogno dell’imbeccata del padrone. Facilmente gli verrà concesso di dirigerlo [scrivere] anche lui, il suo film [romanzo].

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

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