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Jane Eyre

Regia di Cary Fukunaga vedi scheda film

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La recensione su Jane Eyre

di Spaggy
8 stelle

Prendere in mano Jane Eyre di Charlotte Bronte e riadattarlo per lo schermo, grande o piccolo che sia, è una delle operazioni più ardite a cui un regista possa andare incontro. Ci hanno provato in tanti a ricavarne un capolavoro, Robert Stevenson - con l'aiuto di Orson Welles - con La porta proibita si è avvicinato di molto all’ottica del romanzo mentre Franco Zeffirelli è finito schiacciato da una regia presuntuosa e una chiave di lettura lontana dagli aspetti sociali che il romanzo sottintende, mortificando la prova attoriale di Charlotte Gainsbourg e William Hurt che, seppur credibili come Jane Eyre e Mister Rochester, sono rimasti imprigionati nel cliché del romanzo di formazione e d’amore.
 
 
Cary Joji Fukunaga avrebbe potuto sentire l’esigenza di modernizzare il tutto - e qualche ripresa con la camera a mano all’inizio fa anche temere ciò - e, invece, rimane fedele all’opera originaria, senza snaturare il tocco delicato e al contempo eversivo della Bronte. Con l’aiuto di Mia Wasikowska e Michael Fassbender, confeziona un film che ha l’aria del grande classico ripulito dalla polvere del tempo. La sceneggiatura, seppur con qualche libertà narrativa e lievi modifiche, segue il romanzo riportando in scena l’Inghilterra vittoriana con le sue rigide norme sociali e con i fantasmi dell’incombente modernità, metaforicamente rappresentati dall’aggiunta degli aspetti tipici del romanzo gotico. Le strane presenze, reali o immaginarie che siano, regolano i comportamenti dei due personaggi principali, imbrigliati da un passato dal quale sembrano non liberarsi. L’ombrosa tenuta di Thornfield ridiventa il simbolo di una nazione imbrigliata dal colonialismo e dalla smania di egemonia, incapace di gestire prima di ogni cosa il tumulto che attraversa la società e che vede in primis l’evoluzione del ruolo della donna, da sottomessa a indipendente, libera finalmente dal giogo delle decisioni del maschio di casa conquistato con arguzia, come ricordano i duri insegnamenti impartiti dal collegio di Lowood. E Jane Eyre, a sua volta, si trasforma nel simbolo di questa ricerca di indipendenza, come denotano i dialoghi fedelmente ricostruiti nel film: non mancano accenni ad esempio a tematiche di stampo progressista, basati sul diritto all’uguaglianza e sul dovere di andare al di là delle rigide transenne che determinano il confine tra le classi sociali.
 
 
Lungi dal ricadere nella tentazione di analisi del romanzo, è giusto soffermarsi sul film e su quanto messo in scena da Fukunaga, poco più che esordiente. Partiamo dall’inizio, momento in cui si sceglie di entrare in medias res ritrovando in una nebbiosa mattina Jane Eyre, già adulta, in fuga da qualcosa e tormentata da visioni e voci che riportano a un passato doloroso (come tutte le istitutrici, le rammenterà con sarcasmo Mister Rochester) che riappare a piccole dosi con l’uso di flashback talmente brevi che non disturbano lo spettatore che non conosce la storia. Accolta quasi moribonda dal giovane ecclesiastico John Rivers e dalle sue due sorelle, Jane trova lavora come insegnante di una scuola clericale e l’arrivo in una nuova piccola casa di campagna dà l’avvio a un lungo flashback che occupa lo spazio di tutto il film e che, inevitabilmente, presenta qualche problema con il dosaggio dei tempi. Con il finire mortificata è la parte inerente all’infanzia di Jane, dalla morte dei genitori ai soprusi inflitti dai terribili e viziati cugini alle angherie dell’insopportabile zia Sarah, mai redenta neanche in punto di morte. La scelta operata è coraggiosa perché con pochissimi fotogrammi il regista ricostruisce gli elementi essenziali che confluiranno nella psicologia di Jane: la caparbietà, l’ostinazione, la sfida alle imposizioni, lo spirito di libertà, le vessazioni religiose con le continue minacce ricattatorie che vedono protagonisti demoni terreni e inferni oltre la morte. Anche il rapporto a Lowood tra Jane e la compagna Helen, morta di tubercolosi, è solo accennato così come velocemente si evidenziano le violenze fisiche e le umiliazioni inferte alle piccole bambine, dal piedistallo dell’infamia alle vergate sul collo, date per evitare che le allieve alzassero la testa più del dovuto.
 
 
Con l’uscita di Jane dal collegio, si entra nel corpus principale. Chiamata per far da istitutrice – altro elemento autobiografico che la Bronte ha inserito per “vendicarsi” della sua esperienza nel campo, in quanto anche lei istitutrice – alla piccola Adele, figlia di una donna francese che in punto di morte l’ha affidata all’affascinante e scontroso mister Rochester. Chi non conosce il romanzo, qui rimarrà spiazzato: non si chiarisce mai che cosa rappresenti Adele per mister Rochester, anche se una serie di fulminanti battute condite da humour inglese lasciano intendere che la mamma della bambina non fosse una semplice amica. Tutto procede come da letteratura, passa del tempo e mister Rochester rientra a casa rimanendo subito ammaliato da Jane e dalla forza dignitosa che traspare dai suoi occhi, capace di risvegliare demoni e spiriti e di liberare l’anima dell’uomo da una maledizione che l’accompagna da 15 anni.
 
 
Come Jane Eyre è lontana dallo stereotipo della ragazza remissiva e timorata di Dio, Mister Rochester è l’esatto contrario dell’eroe romantico per antonomasia: amante della bella vita, masochista, sadico e dall’umore altalenante, il cui fascino esteriore nasconde una bruttezza interiore che spaventa tutti coloro che lo circondano. Ed è anche l’esatto contraltare di Jane: brutta fuori e animo puro, nascosto tra i fantasmi della mente. Prevedibilmente i due cominciano con l’avvicinarsi l’uno all’altro, grazie a estenuanti conversazioni sostenute da dialoghi che esternano l’introspezione presente nel romanzo e da una recitazione in cui Fassbender e la Wassikowska alzano i toni e fanno a gara a chi fornisce la migliore performance, giocata su più piani e che punta su molti elementi prossemici e cinesici. Nulla è lasciato al caso: sguardi, distanze che limano gli spazi, movimenti del corpo e delle mani comunicano più delle parole, soprattutto quando l’elemento gotico inonda la storia. L’alba nella camera da letto di mister Rochester, dopo il misterioso incendio che ne distrugge le tende, rappresenta l’apice della prova che i due offrono riuscendo a far palpitare anche un bacio soffertamente mancato che rimarca la sessualità pudica e/o repressa con cui i protagonisti della vicenda sono silenziosamente in lotta.
 
 
A proposito dell’elemento gotico, l’atmosfera di Thornfield ricorda spesso quella ricreata magistralmente da Amenabar in The Others, nonostante nessun fantasma si palesi dall’oltretomba. L’unico fantasma della storia è vivo e vegeto e mi fa piacere rilevare come sia interpretato da un’attrice italiana di cui da qualche tempo si erano perse le tracce. In mezzo ai nomi altisonanti dei due giovani attori protagonisti, di una splendida Judi Dench che rappresenta la ciliegina sulla torta nel ruolo dell’anziana e lucidissima governante di casa Rochester, di un Jamie Bell che danza leggero nelle vesti dell’ambiguo missionario John Rivers, di una Sally Hawkins detestabile nella parte di zia Sarah e dell’insopportabile voce di Imogen Poots che incarna tutto il marcio della nobiltà inglese, si staglia in pochi frammenti la nostra Valentina Cervi che, con la sua corvina chioma, rappresenta l’alter ego di Jane e della stessa Bronte, racchiudendo in uno sguardo folle e allucinato tutto ciò che la Wasikowska a dovere reprime nel restituirci la psicologia della protagonista.
 
 
Altra protagonista dell’opera è indiscutibilmente la fotografia. Adriano Goldman ci regala ombre e luci che seguono l’evolversi delle stagioni senza mai aver bisogno di ricercare immagini consolidate. Basta il riverbero di un camino acceso o il fiorire di un pesco sotto i raggi del sole per determinare il tempo dell’azione e gli stati d’animo dei protagonisti, come nel caso della gelida e grigia atmosfera che accompagna il tentativo di matrimonio di Jane e Rochester e ne preannuncia l’epilogo. La natura dà la mano ad ogni passo della storia, fotografata spesso con larghe vedute che mostrano terre sconfinate o rocce nere su cui adagiarsi aspettando invano che arrivi la morte. Non sono da meno la ricostruzione degli ambienti a opera di Will Hughes-Jones, i costumi dettagliatamente ricreati da Michael O’Connor e le musiche mai invasive (anzi, spesso sottotono) di Dario Marianelli, che in un’operazione ardita mette in note anche una poesia di Lord Byron. 

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