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Vanishing on 7th Street

Regia di Brad Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Vanishing on 7th Street

di Spaggy
2 stelle

“Mulder? Scully? Dove siete? C’è un X-file da risolvere. Abbiamo perso un film, un regista e la sua creatività. State cercando la trama per il terzo film? Ve la do io: indagate sulla genesi del film di Anderson”. E si, di misterioso in questo film rimane il film stesso, non si capisce che fine abbia fatto, se sia solo un episodio banale e sconclusionato di “Supernatural” o se si faccia il verso a “Roswell”. Ma procediamo con ordine…
 Vi ricordate “L’uomo senza sonno”, film con un intenso Christian Bale smagrito e ossessionato? Ricordate la carica psicologica del suo meccanico Trevor? Si, certo, il film aveva qualche difetto ma la regia faceva perdonare gli errori grossolani. Oppure ricordate il manicomio e l’orrore puro di “Session 9”? Bene, dimenticate anche questo. La “Scomparsa sulla 7ª Strada” a cui fa riferimento il titolo è la scomparsa del nome del regista Brian Anderson dalla lista di coloro su cui si nutrivano grandi aspettative per il futuro e al momento non so darmene una spiegazione. Forse ha avuto fretta di girare mentre gli sceneggiatori erano ancora in sciopero e si è servito degli “scemeggiatori”, categoria di nuovi compilatori di copioni che passa il tempo a girare per siti internet, a recuperare informazioni, a mescolarle e a sperare che qualcuno ci creda. O forse si è perso dietro alle logiche dei network televisivi per cui ha girato qualche episodio di “The Shield” e qualcuno in più di “Fringe”, non distinguendo più la differenza tra una storia che si evolve sia orizzontalmente che verticalmente da una che deve essere concentrata in 90 minuti di girato. Ecco, da ottimista, mi piace pensare che prevalga questa seconda ipotesi: Anderson ci ha preso in giro e questo film è solo il prologo di una futura serie che ci lascerà a bocca aperta.
 
Partiamo dalla trama. L’uomo senza sonno, Luke, giornalista tv, stavolta è rimasto senza luce ma non se n’è accorto perché dormiva con le candele accese che lo salvano da una morte improvvisa. Senza ragione e senza nessuna apparente causa scatenante, le leggi della fisica che regolano l’ordine naturale delle cose e del mondo smettono di funzionare: niente più luce, né naturale né artificiale. Nell’arco di 72 ore il mondo è sconvolto da un’apocalisse senza precedenti, anche i ritmi del giorno e della notte sono alterati. Tutti coloro che rimangono al buio vengono inghiottiti da coni d’ombra. Ovviamente l’ombra è schizzinosa e ingloba soltanto carni umane, niente animali e niente vestiti: è capace anche di levare gioielli e dentiere, lasciando il tutto sul pavimento, ripiegato come se fosse ancora indosso ai poveri sventurati. Ed è palese che l’ombra avanzi come nella peggiore ninna nanna e viva di anime deliranti che sospirano il nome dei sopravvissuti nel tentativo di annientarli. Oltre a Luke, sfuggono al buio anche James, ragazzino di dodici anni, chiuso all’interno di un bar dotato di un generatore di corrente elettrica (che ha ancora qualche ora di autonomia per la poca benzina rimasta) e che ha perso la madre (uscita fuori alla ricerca di luce), Rosemary, fisioterapista che ha perduto il bimbo di 9 mesi a causa dell’ombra, Paul, proiezionista di un cinema all’interno del centro commerciale e Briana, misteriosa bambina che appare e ricompare nel corso della trama. Ben presto, Luke, James, Rosemary e Paul si ritrovano all’interno del bar e comincia il gioco delle congetture, provano a darsi una spiegazione logica e, soprattutto, provano a studiare un piano per salvarsi (arrivare a Chicago, dove, grazie a una registrazione tv, Luke crede ci sia altra vita). Il piano però non va per il verso giusto ed uno dopo l’altro i nostri impavidi eroi sopperiranno alla sorte prestabilita, al reset che riordina il mondo, ad esclusione dei due piccoli James e Briana.
 
Sulla carta, niente da eccepire. Raccontata così sembrerebbe una trama con spunti interessanti, nonostante la poca originalità del soggetto. Il problema è la messa in scena, la rappresentazione, la gestione dei punti morti, l’eccessiva noia verbale dei protagonisti caratterizzati come in un b-movie di pessima fattura, il non saper gestire le possibili spiegazioni del black out e il non saper dare risposte sul perché del reset, per non citare il finale degno di passare alla storia per la sua ridicolaggine. Non c’è pathos che possa attraversare lo spettatore, non c’è un minimo di sussulto o di tensione, solo estenuanti e ripetitivi giochi di luci e ombre. Ombre accennate sui muri, ombre che sospirano e richiamano i vivi, ombre che appaiono e scompaiono in continuazione. Non ci si concede nemmeno il lusso di inventarsi soluzioni visive originali, l’inizio del film con la sua desolazione urbana richiama scene viste e riviste in numerose pellicole, si avvertono echi di Romero, di Kurosawa e Zombie ma sono echi sordi, deformati e ammorbati da una tendenza al piattume esasperato. Non sapendo dove parare, si arriva a scomodare anche il maestro dell’horror, Stephen King, e la sua visione della scomparsa della colonia di Roanoke nel 1587, materia già di una pregevole miniserie qualche anno fa (“La tempesta del secolo”): il personaggio di Luke continua a ripetere ossessivamente che si tratta di una “tempesta passeggera” e la scritta “Croatoan” appare anche su un muro che si ritrova di fronte nel momento in cui prova a fuggire a bordo di un furgoncino acceso grazie al generatore del bar. Inutile e pretenziosa appare invece  la spiegazione fumosa che emerge nei dialoghi tra i quattro all’interno del locale: ci si chiede se il tutto non sia un’opera ben congegnata da Dio che, nel suo delirio di onnipotenza, ha richiamato tutti a se, immergendoli nell’ombra (la citazione è d’obbligo: libro dell’Apocalisse 22, 5) o, peggio ancora, si arriva a dedurre che il buio è il paradiso mentre la luce, usata come trappola (triste la metafora tra esseri umani e falene), è l’inferno, il peccato da cui scappare. E in questa visione da americano folgorato sulla via della redenzione si inserisce anche la scelta di ambientare all’interno di una chiesa l’epilogo della vicenda: la Chiesa diviene letto, culla, di una nuova stirpe di sopravvissuti, di un nuovo Adamo e di una nuova Eva.


Pur essendo un film molto parlato, non c’è approfondimento psicologico sui personaggi, non c’è evoluzione. Si ascoltano e si sentono dei resoconti di vita, si intravedono flashback di gesti compiuti, si scrutano momenti privati col contagocce, dal buco della serratura. Si ha l’esigenza di far dire a tutti quanti che “esistono”, come se fosse la formula di un rituale magico da compiere per convincersi di essere vivi anche quando ormai sono morti dentro. La sensazione è che si voleva giocare la carta del simbolismo esistenziale per rimarcare la deriva progressista del mondo, l’esito però è stato meno fortunato. E la colpa è da attribuire anche agli attori che claustrofobicamente provano a mantenere in piedi l’assurdità rappresentata: Hayden Christensen, che sembra conoscere una sola espressione, tra il contrito e l’arrabbiato, si ritrova tra le mani un Luke decisamente anonimo, dovrebbe essere l’eroe della situazione ma è la vittima che compie i gesti più insoliti e distratti, come quando si accorge della desolazione intorno solo dopo aver visto crollare ed esplodere un aereo. Non si capisce poi perché Thandie Newton, nei panni di Rosemary, sia così sopra le righe: forse era ancora accecata dalla distruzione di “2012” per accettare un altro ruolo apocalittico, sembra in continua crisi isterica, “aiutata” anche da un personaggio ridicolo e da tv del dolore (ex tossicodipendente uscita dal tunnel grazie all’arrivo del figlioletto), in continua crisi d’astinenza… di cosa, però, non è dato saperlo. Dispiace vedere il pur bravo John Leguizamo scomparire (è il caso di dirlo) nei panni del proiezionista Paul, l’unico ad aver provato direttamente sulla propria pelle l’effetto diretto delle ombre. Interessante il piccolo Jacob Latimore, nonostante il ruolo di James non brilli per capacità richieste, mentre superflua è la presenza in scena di Taylor Groothuis, l’enigmatica Briana, utile solo al finale da barzelletta.


Brian Anderson si è addormentato e speriamo che si risvegli presto. La scena finale da favola moralista con i due bimbi in groppa ad un cavallo, diretti verso Chicago, più che regalare speranza da “e vissero felici e contenti”, regala una sonora risata per quanto insipida e fuori luogo. Che la causa sia stato il film con Adam Sandler che si sta proiettando al cinema all'inizio di quest'ennesima apocalisse?

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