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Il Grinta

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Il Grinta

di spopola
8 stelle

Una articolata riflessione sul tema della vendetta trattato questa volta con una prospettiva più distesa e a tratti surreale oltre a una buona dose di violenza. Pur nel rispetto formale dei canoni del genere, resta comunque immutato lo sguardo provocatorio del cinema dei Coen fatto di gustose annotazioni e di caustico umorismo corrosivo.

Il romanzo di Charles Portis era già stato utilizzato nel 1969 da Henry Hathaway per realizzare un film rimasto impresso nella memoria soprattutto per la figura del suo protagonista (un autorevole e ormai attempato John Wayne con un occhio  fuori uso costantemente coperto da una benda nera, caratteristica questa che lo farà diventare quasi un’icona, in un ruolo che gli permise di arrivare finalmente all’Oscar). Un discreto prodotto quella pellicola, ma nemmeno delle migliori fra quelle realizzate dal regista, interessante soprattutto per il contrastato ritratto di un crepuscolo; non il crepuscolo di un semi-dio però, ma bensì di un vecchio burbero, solido come una roccia, patetico, ad un tempo presuntuoso e maldestro, ultimo sostenitore delle soluzioni individuali e dei conti regolati sul posto, giustiziere asociale che non numera più le sue vittime (“Il Western,  fonti, forme, miti, registi, attori e filmografia” a cura di Raymond Bellur – Feltrinelli editore) e dove la violenza delle esecuzioni viene trattata con secchezza, ma se si vuole, anche con una piccola punta di sadismo, tipica del regista (Bertrand Tavernier),  che per altri però (per esempio Andrea Fornasiero) è poco più di un grazioso filmetto  che mostra una certa epicità solare in alcune parti, ma in altre è invece molto vicino a  un’avventura dal sapore disneyano).

Il Grinta realizzato dai Coen, remake e “rilettura” critica della storia, ha certamente ambizioni più elevate. Si presenta anch’esso in apparenza come un tipico western dall’impianto classico, ma il tutto è come sempre “reinventato” alla maniera (e secondo la loro particolare sensibilità  e visione delle cose) dei due creativi fratelli più o meno sempre grandi e spesso eccellenti (forse fra tutto ciò che hanno realizzato, solo Ladykillers mi ha deluso totalmente, il che non è poco in una filmografia abbastanza consistente e piuttosto variegata come la loro).

La vicenda come ben si sa, è quella di una ragazzina che mostra un’inconsueta conoscenza delle cose ed ha altrettanto chiari gli obiettivi che intende conseguire. Rimasta orfana in così tenera età, vuol fargliela pagare al vile assassino di suo padre, ma sa che da sola non potrà mai farcela a raggiungere il suo scopo. Utilizzando il suo sapere, snocciola formule legali, manipola la legge con disinvoltura estrema, invoca il patrocinio di  presunte avvocature come fossero numi tutelari, e alla fine riesce  a convincere e ad assoldare per accompagnarla nella sua missione (che è poi quella  di dar la caccia all’uccisore del proprio genitore), uno sceriffo alcolizzato ed orbo, scegliendolo soprattutto per la sua “inesorabile determinazione” un po’ altezzosa.

Il film diventa così da subito una riflessione abbastanza articolata  sul tema della vendetta (spesso “centrale” nel cinema dei due registi) trattato questa volta  però con una prospettiva più distesa e a tratti surreale davvero  molto originale pur nel rispetto “formale” dei canoni del “genere”, ma non per questo la loro mano si dimostra meno leggera e provocatoria,  zeppa com’è di sulfuree venature  e di gustose annotazioni (il caustico umorismo corrosivo caratteristico del loro cinema)  che non incidono però minimamente sul clima di estrema violenza che permea in buona parte la vicenda.

L’empio fugge anche quando nessuno lo insegue è la citazione tratta dal libro dei Proverbi con il quale si apre la pellicola che racconta già da sola molte cose, a partire da una legalità quasi del tutto sconosciuta (inutile) in quella terra di nessuno dimenticata da Dio e dagli uomini dove si è nascosto Tom Chaney, l’omicida che la ragazzina sta tentando di stanare ad ogni costo con l’aiuto di quel federale  quasi “fuori corso” che non è forse il  migliore in assoluto, ma è certamente il più spietato ed “affidabile”.

Il viaggio nell’inospitale terra indiana (quella dei Choctaw) di quell’improbabile coppia che diventa trio, quando a loro si aggiunge strada facendo, un terzo incomodo, il ranger cacciatore di taglie di origini texane LaBoeuf (perfettamente reso sullo schermo nella sua monolitica dimensione da un eccellente Matt Damon), coriaceo giovanottone tutto d’un pezzo che si dimostrerà fedele alla propria vocazione persino a costo della vita  e anch’esso alla ricerca dello stesso bandito, ma più ligio al rispetto delle regole (metafora evidente di una “legge” degli uomini che si vorrebbe meno corruttibile e più retta),  rappresenta quindi prima di tutto l’occasione per un percorso di iniziazione formativa di un’adolescente tosta e determinata come la quattordicenne Mattie Ross appunto, apparentemente impassibile e spesso imperturbabile, ma la cui vita verrà però radicalmente cambiata, e in qualche modo stravolta  per sempre (anche fisicamente), proprio  da quell’avventura tanto brutale e necessaria,  quanto pericolosa e coinvolgente.

L’ambientazione  temporale della vicenda, pone i fatti narrati in una specie di interregno fra la assoluta barbarie dell’epopea pionieristica della giustizia “fai da te” che ha caratterizzato tutta le prima fase espansiva dell’invasiva colonizzazione di quelle terre selvagge espropriate ai “nativi” con la forza, e il lento progredire della cosiddetta  civiltà in arrivo (il “vecchio” e il “nuovo” insomma  che si confrontano e si scontrano, dove appunto la tradizione è rappresentata  certamente dai banditi fuorilegge, ma anche da quegli uomini altrettanto duri e un po’ gaglioffi - sceriffo e cacciatore di taglie in testa - che interpretano rispettivamente lo spirito anarchico e quello repubblicano di una nazione in formazione).

La vera e propria “novità”  è comunque tutta concentrata sulla figura della ragazzina, letta qui non più come la classica figura “passiva” e sottomessa da asservire, ma bensì quasi come un’orgogliosa e caparbia “femminista ante-litteram” vendicativa e un po’ petulante ma già proiettata nel futuro, che anticipa il novecento che è alle porte e assume di conseguenza su di sé il ruolo (e il peso) di simbolico emblema della modernità incombente.

Ed è soprattutto questo l’elemento che rende particolarmente interessante e stimolante l’approccio dei Coen al libro di Portis, l’aver fatto cioè coincidere nella loro rilettura,  il proprio sguardo (e quello dello spettatore in sala) con quello quasi totalmente privo di “innocenza” della protagonista (True grit è il titolo in originale,  e non a caso dovrebbe essere più propriamente tradotto come “vera grinta” ma dove quella “grinta” così realisticamente chiamata in causa, non appartiene necessariamente al genere maschile, né riguarda in assoluto la figura del protagonista come la traduzione italiana fa supporre, ma definisce invece e soprattutto, la testarda determinazione della ragazzina, ciò che riesce con quella ad ottenere e conquistare, il suo essere davvero davanti a tutti gli altri) e questa specie di ribaltamento del fulcro della storia che anche lo spettatore avverte, contribuisce, se possibile, a far sembrare ancor più strano, straordinario e  paradigmatico “l’eroe” effettivo (quello eponimo), strabico, bendato e un tantino stralunato, rozzo e beffardo, interpretato in maniera esemplare da un carismatico, istrionico Jeff Bridges al meglio delle sue notevolissime doti di attore.
Il loro incontro, il rapporto che si crea fra la ragazza e l’uomo, diventa quindi assolutamente prioritario,  di quelli davvero fondamentali per una acquisizione di consapevolezza della vita, e assumerà nel corso degli anni, una valenza fortemente emblematica quasi di una indotta, ritrovata (e riconquistata) “paternalità” (da intendersi come rapporto padre-figlia), che per molti versi è anche la chiave  centrale di un  racconto dove pullulano figure prese direttamente dall’iconografia del “selvaggio west” messe però a confronto  con una ragazza  che fa già parte a suo modo del ventesimo secolo, quello in cui tutta l’epopea del mito della frontiera (e la sua retorica) finirà per sgretolarsi totalmente, le gesta “eroiche” dei pistoleri si trasformeranno in eventi da utilizzare nelle rappresentazioni circensi, diventando “fenomeni da baraccone”, e i “nativi” superstiti, definitivamente domati e vinti, si troveranno a (soprav)vivere “rinchiusi” nei recinti delle poche riserve a loro destinate, distrutti dall’alcol e dal progresso.

Alla fine del film, infatti, quando ormai in pieno novecento ritroveremo la ragazza  diventata ormai un’attempata quarantenne certamente  “maturata”, ma anche crudelmente  “menomata” dalle incancellabili conseguenze fisiche riportate che sono state  il prezzo pagato all’avventura, ci accorgeremo di quanto l’esperienza di quella spedizione abbia profondamente segnato la sua esistenza, plasmandone non solo la filosofia, ma anche un differente approccio alla vita  (Marco Spagnoli ha definito quel travagliato viaggio un avvicinamento evidente alle suggestioni di “Alice nel paese delle meraviglie”) che ha consentito alla teenager del precedente secolo di “ritornare” finalmente (e non solo metaforicamente) alla luce molti anni dopo, con una nuova prospettiva delle cose. E sarà stata soprattutto la sua grinta personale, la sua determinazione, ad averle fatto raggiungere  questo risultato.

I due registi fanno magnificamente concludere la pellicola con un finale davvero  scoppiettante  fatto di cavalli, pistole, “duelli al sole” (e tanta nostalgia), degno della migliore tradizione del vecchio West cinematografico, che è un po’ la sintesi evidente di tutto il loro percorso di “recupero” fatto insieme alla (allora) quattordicenne Mattie Ross, a conferma evidente che il loro adattamento dell’opera di Portis, intende raccontare soprattutto la fine del Western (qui rappresentato immergendo l’azione in  brumose atmosfere invernali che odorano di zolfo fra bricconi malvagi, indiani ormai dannati, orribili ferite e  “sporco” commercio di “carogne” - i cadaveri appunto -, attingendo anche a  qualche sotterranea ma lampante citazione  da classici come Sfida infernale o L’uomo dai 7 capestri, tanto per ricordarne due dei più evidenti). Il tutto, con molto humor (di quello nero però) e grandi dilatazioni narrative che esaltano gli spazi infiniti di quelle praterie attraversate da improvvise quanto inaspettate esplosioni di violenza che non risparmiano particolari un po’ cruenti, ma strettamente necessari e fondamentali per rendere compiutamente chiara  la loro visione di quel mondo.

Un film molto interessante dunque, anche se non il  migliore dei Coen, s’intende (io per lo meno li preferisco quando privilegiano ben più “temerarie” imprese, e realizzano così i loro insuperati capolavori), comunque  ben orchestrato e con movimenti di macchina molto suggestivi, che contribuiscono ad imprimere alla narrazione, soprattutto nella seconda parte, un ritmo davvero travolgente: come ripeto ancora una volta, i due Coen alle prese con un soggetto “indiscutibilmente”  western,   lo sfruttano “a modo loro” e  con l’abituale istrionica bravura che conosciamo bene,   per sublimare ancora e sempre, ansie e inquietudini esistenziali che evidentemente possono essere placate solo da notti intorno al fuoco sotto cieli stellati, dall’alcol, dai proiettili e dalla consapevolezza che, certe volte, le cose vanno come vanno solo perché qualcuno ha deciso di rifiutare l’ingiustizia (Marco Spagnoli) ed è anche questo un elemento che meriterebbe una seria riflessione.

La ragazzina dalle lunghe trecce scelta per interpretare Mattie dopo un’infinita serie di provini, è la debuttante Hailee Steinfeld che ben si amalgama col resto degli interpreti (oltre ai già citata nomi, va ricordato anche un Josh Brolin  puntuale ed efficace come al solito) che ha il physique du rôle  ma anche ottime capacità recitative e che pur con modalità e percezioni totalmente differenti ma ugualmente appropriate, non fa assolutamente rimpiangere la bella prove offerta da Kim Darby  nella precedente pellicola di Hathaway.

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