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Il Grinta

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Il Grinta

di ROTOTOM
8 stelle

Questo film ha un problema. Ma ne parleremo alla fine.  I fratelli Coen si confrontano ancora una volta con il remake. Ladykillers (2004) ,  era il rifacimento  de La signora omicidi (1955), di fatto il punto più basso della produzione dei fratelli simbiotici che per la prima volta si cimentano in un western, se per western indichiamo i film con  i tizi coi cappelloni e le colt. In realtà Non è un paese per vecchi (2008) era di fatto un western, molto più di questo, come lo erano Le tre sepolture (2005) di Tommy Lee Jones e Badlands (1973) di Terrence Malick per citare altri autori che si sono confrontati con le terre selvagge in bilico tra cultura della frontiera e modernità.

True Grit, tratto dal libro di Charles Portis, candidato a sorpresa a una valanga di Oscar, rimane sospeso tra queste due caratteristiche con l’impianto visivo del western classico, ovvero, colt e cappelloni. Cavalli e duelli, sceriffi e gaglioffi. E Mattie Ross una ragazzina che si insinua nella storia non più come la classica femmina passiva destinata allo stupro o alla soppressione da parte dei nativi americani, quanto come emblema della modernità che il mondo ottocentesco americano generava nell’avviarsi verso il ‘900. Un’orgogliosa, vendicativa, petulante e saputella ragazzina in cerca di vendetta per l’assassinio del padre. Una figura proveniente dal futuro che riassume su di sé tutte le contraddizioni di una nazione evolutasi nel tempo a venire con una bibbia in una mano e il fucile nell’altra. In un unico punto di fuga convergono i tre personaggi che rappresentano le tre anime della nazione, oltre alla ragazza (Hailee Steinfeld), il Grinta Reuben ”Rooster” Cogburn (Jeff Bridges), lo sceriffo dall’omicidio facile che rappresenta la nazione dei padri fondatori che strapparono le terre ai nativi massacrandone le risorse – i bufali, che lo stesso Grinta rimpiange: “la carne di bufalo era buona ma ora non ce ne sono più” e lo sceriffo del Texas, il ranger LaBoeuf (Matt Damon) che rappresenta la legge degli uomini retta e fedele  alla causa fino alla morte.

True Grit è già postmoderno e ipotetico, capace di narrazione solida quanto di surreali fughe poetiche. Narra ai contemporanei che già hanno la cultura del cinema di genere western ma con un occhio a quello che sarebbe stato nel prossimo futuro.  I personaggi stanno lì inconsapevolmente prigionieri di un tempo astratto, in quella terra di mezzo  dalle vastità delimitate dalle linee orizzontali dell’infinito. Un vuoto che viene riempito, a seconda dei ruoli, da speranze (i coloni), violenza (i cattivi), regole (i buoni).

 Non mancano le situazioni assurde tipiche dei film dei Coen, le grandi dilatazioni narrative infrante da improvvise esplosioni di violenza che non risparmiano particolari shock. Il destino che fa capolino a risolvere la situazione in maniera quasi capricciosa e la stupidità imperante, l’idiozia che si tramuta in cieca violenza.  Tutto questo esiste ma è come se fosse trattenuto, non pienamente eseguito. Il nichilismo caro ai fratelli Coen viene stemperato nella corpulenta figura del Grinta, che sprizza ironia e strizza un occhio, l’unico, al Genere, sciommiottandone l’epica. Così il ranger agghindato come il cowboy dei soldatini ne incarna in pieno la rettitudine e la rigidità, divenendo portatore sano di un immaginario consolidato ma a ben vedere, come sottolinea in pieno la ragazzina, che è colei che incarna gli occhi privi di innocenza dello spettatore, assolutamente ridicolo. Sono figure già destinate all’iconografia del selvaggio west, quelle che andranno all’inizio del nuovo secolo a fare rivivere le gesta dei pistoleri nei circhi itineranti, rinchiusi in recinti di un passato pittoresco come i nativi nelle riserve.

Il Grinta originale consegnò nelle mani di John Wayne l’Oscar come migliore attore, True Grit dei fratelli Coen  è candidato a 10 Oscar, più per motivi commerciali che per meriti effettivi, così come il Duca a fine carriera fu omaggiato da un premio che lo rendesse immortale.  Benchè sia assolutamente un film gradevole e gli interpreti molto fedeli al ruolo,  su tutti il “drugo”  sceriffo  “Rooster” e la ragazzina rivelazione Hailee Steinfeld , non ha la forza né dei capolavori dei Coen, Non è un paese per vecchi e Fargo solo per fare un paio di esempi né dei diretti concorrenti alla statuetta come The social network e Il discorso del re e nemmeno di Black Swan.
Soprattutto cala un dolciastro sapore di buonismo generalizzato, un senso di edulcorato smussar di spigoli tendente un po’ al didascalico che porta il tutto a finire un po’ come ti aspetti, senza sussulti o sorprese. Qualcosa che durante la visione si è nebulizzato nella mente in maniera subdola, come i famigerati finali di Spielberg. Sensazioni. No. Nei titoli di coda il produttore esecutivo risulta essere proprio Steven Spielberg. Ecco, tutto si spiega. E’ questo il problema del film.

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