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Los colores de la montaña

Regia di Carlos César Arbeláez vedi scheda film

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La recensione su Los colores de la montaña

di OGM
8 stelle

Per il piccolo Manuel, il sogno più grande è recuperare il suo pallone da calcio, finito in un campo minato. Quell’oggetto, ricevuto in regalo il giorno del suo nono compleanno, è un desiderio che, appena intravisto, è subito crudelmente sfumato in una nebbia funesta. Ed è un simbolo dell’accerchiamento in cui i guerriglieri delle FARC hanno stretto il suo mondo, un villaggio rurale sulle montagne della Colombia. Quel poco che possiede gli viene rubato un pezzo alla volta: Manuel perderà gli amici, la scuola, il padre, la casa e, prima di ogni altra cosa, l’innocenza che, a quell’età, è l’illusione di vivere in mezzo alla pace, senza dover avere paura dei propri simili o doversi preoccupare per il domani. La campagna in cui è nato smette presto, ai suoi occhi, di essere un luogo incantato, in cui una vacca nera partorisce un vitello bianco, la compagna Maria Cecilia gli presta una matita gialla e la maestra fa dipingere agli alunni un enorme mural con grossi pennelli e secchi di vernice. Un giorno un maiale calpesta una bomba nascosta nel prato e salta in aria; nel vicinato tre persone vengono uccise, e poi c’è il fratello maggiore di Julian, che è partito per una missione misteriosa, in un posto dove si raccolgono tanti proiettili, di forme e dimensioni diverse. Il padre di Manuel spesso scappa e si nasconde, quando certi uomini vengono a cercarlo. C’è qualcosa, là fuori, che continua ad allungare la sua mano vorace, strappando via la gente, la terra, la speranza di poter crescere liberi e sereni, senza sentirsi continuamente minacciati dagli incomprensibili segreti dei grandi. I muri si coprono  di strane scritte, in cui si parla di combattenti, di divise, di morte. È come se, a dispetto della vegetazione fitta e rigogliosa, un deserto si facesse rapidamente strada in mezzo al verde dei prati e dei boschi, conservando una parvenza di colore, però soffocando il respiro della natura. Anche il gioco, ormai, si è trasformato in una lotta: quella combattuta per continuare ad essere bambini, a marinare la scuola e disobbedire ai genitori, pur sapendo che ciò può costare la vita. A quel pallone nuovo non si può rinunciare, anche se, tentando di raggiungerlo a piedi, si rischia di finire come quel maiale. Per questo motivo bisogna ingegnarsi, con funi, bastoni, ed altri stratagemmi, come i soldati sul campo di battaglia.  Ed occorre tanto coraggio, che nell’infanzia è ancora tutt’uno con l’incoscienza e la voglia irrefrenabile di esplorare il proibito. La sopravvivenza, per Manuel ed i suoi compagni, significa mantenere accesa la fiamma della curiosità e della fantasia, anche quando lo spazio fisico in cui esercitarle si restringe sempre più e si riempie di pericoli, non lasciando altra possibilità che quella di scherzare col fuoco. Perfino dirigere una torcia verso il cielo, per vedere un elicottero che vola nel buio, è un gesto istintivo che può avere conseguenze fatali.  Il finale del film non ci lascia capire se i piccoli protagonisti di questa avventura, dispersi dai venti di una guerra dalle sembianze spettrali, sapranno trapiantare altrove la loro caparbia volontà di sottrarsi alle dure leggi della realtà per inventarsi una storia diversa, in cui tutto risulta possibile. Sappiamo, però, che la prova che hanno affrontato è già, in assoluto, la più difficile: una sfida contro un ambiente estremamente complesso ed ostile, che Carlos César Arbeláez riesce a presentare come selvaggio ed ambiguo, rarefatto ma claustrofobico, agreste eppure squallido.  Tutto ciò che si oppone alla luce è racchiuso in quel microcosmo sperduto, dimenticato da Dio ma sinistramente assediato dagli uomini: la tenace semplicità dei bimbi resiste alle serpeggianti infiltrazioni di un nemico sottilmente infido, che innesta dilemmi ed odio nella testa degli adulti, ma non si abbassa mai ad altezza di bambino. Los colores de la montaña – candidato colombiano all’Oscar per il miglior film straniero – è un acquerello intinto in un liquame torbido, dove solo i più piccoli restano se stessi: spiriti autonomi, e ribelli, come sempre, a chi vorrebbe negar loro il diritto alla gioia, in nome del quale, all’occorrenza, è bello persino sguazzare nel fango.   

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