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The Fighter

Regia di David O. Russell vedi scheda film

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La recensione su The Fighter

di spopola
8 stelle

The Fighter… una riflessione talvolta impietosa  sull’occasione della vita, quella che qualcuno ha gettato via, e che per qualcun altro forse non è mai arrivata…

 

Due fratelli, una “famiglia” con tutti i “drammi” che si porta dietro, un mondo degradato fra disoccupazione e droga, il ruolo “salvifico” della passione (per lo sport nel caso specifico, ma anche della condivisione, del credere in qualcosa e persino in “qualcuno”) passaggio quasi obbligato per riuscire alla fine a riconciliarsi più che con la vita, con i propri errori e con sé stessi.

Sono state proprio queste le riflessioni “a caldo” che mi sono fatto dopo la visione in sala di una pellicola per molti versi straordinaria come The Fighter, piena di cuore e di sorprese, adrenalinica come poche altre, ma capace di scavare nella profondità delle anime dei suoi protagonisti e di creare emozioni e suspense, perché nella realtà dei fatti, il film è  concentrato  prima di tutto sui personaggi e sui loro controversi rapporti familiari: la boxe è il sottofondo (tutt’altro che secondario), la cornice necessaria, l’indispensabile cartina di tornasole che fa venire a galla le  laceranti contraddizioni che si portano dietro.

Un film profondamente disintossicante insomma (qualcuno lo ha proprio definito in questo modo, ed anche io mi associo condividendone il concetto)  che ci racconta come sia possibile risorgere e ricostruirsi mettendo proprio in gioco (quasi esaltandola) la forza dell’unione. Storia di “sentimenti” e di inscindibili relazioni, di “dipendenze” e di rapporti, così radicati e profondi da resistere all’usura e alle tentazioni, dunque: The Fighter come ben sappiamo, è tratto da una storia vera (che il regista riesce a raccontarci davvero come se si trattasse di una “cronaca” asciutta e solida, registrata in diretta più che “ricostruita” nella modalità un po’deformata  del ricordo, e per questo, totalmente priva di retorica), quella di Dick Ecklund e di suo fratello Micky Ward (fratellastri per la verità, perché nati dallo stesso ventre ma da padri diversi) , e del  matriarcato dominante della madre “artefice assoluta e incontestata “tiranna” dei destini e della sorte della propria prole, altro elemento di assoluta importanza e primo piano. Dick e Micky, allora:  due personaggi così agli antipodi fra loro, da risultare alla fine, come spesso accade in queste circostanze, persino complementari nella loro apparente “incompatibilità”, e soprattutto tutt’altro che subordinati l’uno verso l’altro come potrebbe sembrare a prima vista.

E’ stato abbastanza accidentato il percorso per  arrivare alla realizzazione effettiva della pellicola: inizialmente progettata per Aronofsky  (se ne comprende il senso e la ragione, se si considera proprio ciò che lui ha fatto con The Wrestler ,  e anche le scelte registiche operate da David O. Russell, sia nel montaggio che nella direzione della fotografia e nell’uso  della macchina a mano – una volta tanto più parsimonioso del suo consueto – risultano abbastanza in sintonia, quasi   “consapevoli”,  nel senso che ne tengono indubbiamente conto di questa “appartenenza” indiretta, capaci come sono di far “riecheggiare” ma con inedite modalità di rappresentazione, proprio “quel film e quello stile”, persino nella composizione della  bellissima colonna sonora), assegnava anche a Matt Dammon  (ritiratosi però prima dell’inizio delle riprese) il ruolo di Micky.  Tramontata questa prima ipotesi,   il progetto è passato alla fine senza “rimpianti” o recriminazioni (vedremo dopo come e perché) nelle solide mani di David O. Russell, magari meno conosciuto, ma ugualmente talentoso, che ci ha infatti regalato un’opera  “elettrizzante” ed originale nonostante il tema e gli illustri antenati sul mondo della boxe, proprio per la straordinaria capacità che ha avuto di evitare  luoghi comuni e  soprattutto tentazioni “imitative”  sempre in agguato in questi casi: basta vedere come sono stati risolti “intelligentemente” gli incontri sul ring,  girati in video, anziché su pellicola, una modalità che accentua “volutamente” l’effetto realistico del contatto diretto con le cose portando in  primo piano, privandolo però da ogni orpello e “abbellimento”,  ed evitando così eccessive glorificazioni agiografiche, lo squallore e il sudore che circonda  il ring, con tutti  i  “riti” che si porta dietro. Con Russell, sarà poi alla fine Mark  Wahlberg a rivestire i panni del protagonista e a diventarne  anche per “attinenze” empatiche di riconoscibilità, uno dei carburanti attivi che hanno tenuto acceso il motore dell’impresa nella sua lunga gestazione. Scelta  davvero indovinata a conti fatti, poiché Wahlberg (un interprete straordinariamente “classicheggiante” nella resa, capace di costruisce il personaggio senza eccessi  o istrionismi, come era necessario che accadesse per contrapporsi anche  dialetticamente all’esuberanza espansa di suo fratello Dick, che recita dunque con una intelligente compostezza alla Spencer Tracy , come dichiarerà il regista  in un‘intervista) si è dimostrato davvero ideale per questo ruolo. La sua è veramente una partecipazione profonda e consapevole dovuta forse a un incidentale analogo “percorso” di vita con colui che si trova a interpretare sullo schermo (sia pure in tutt’altra direzione, ma con non molti differenti esiti), a partire dal rapporto col fratello maggiore: entrambi  ultimi di nove figli, anche Wahlberg è cresciuto a lungo all’ombra di quello più grande in un’altra periferia - di Boston nel suo caso - e con una adolescenza non proprio “adamantina” da teppistello  e addirittura un esperienza in carcere di due mesi. Questo lo ha reso capace di comprendere di “condividere” il mondo e le modalità dei rapporti che legano Ward a suo fratello Ecklund. Sappiamo poi quanto si è speso e quanto si è dato da fare  perché il progetto arrivasse davvero a maturazione e anche di questo dobbiamo rendergli atto e testimonianza: è lui infatti che ha spinto in avanti il copione sempre e comunque senza lasciarsi scoraggiare; è lui che arriverà quasi ad implorare Russell per convincerlo ad assumersi il ruolo di regista; è lui che deciderà di installare in casa propria – quando tutto era ancora molto nebuloso - un vero e proprio ring  sul quale si è poi allenato ogni mattina per ben quattro anni in attesa  e nella speranza che tutti i nodi si sciogliessero davvero e che si potesse passare alfine alla realizzazione pratica del lavoro.

Film anche di interpreti si potrebbe dire allora, perché davvero qui tutto il cast è formidabile: se Wahlberg più “cerebrale” e accorto, come già accennato,  ci fornisce di Micky un’interpretazione tenera e controllata di indubbia pregnanza e valore, l’indiscussa star dell’opera, il vero protagonista anche “morale”, l’asse portante dell’impianto generale, è  Dick e il suo essere borderline, con le sue trasgressioni, le sue cadute ed i suoi egoismi,  e Chirstian Bale è più strepitoso del solito nel caratterizzare il suo “essere al limite”, una interpretazione così maiuscola  tanto aderente e appassionata, da rinnovare e modernizzare il cosiddetto “Metodo”, un Bale sdentato e quasi calvo, ridimensionato anche fisicamente, persino consumato nella carne,  per essere  credibile nel suo degrado e creare così un’alchimia profonda con gli spettatori che si trovano  a rivivere con lui (o meglio attraverso la sua interpretazione) tutto il tormento interiore del personaggio reale con il quale è stato chiamato ad identificarsi. E la  rappresentazione che ne fa, allo stesso tempo tragica e  disperata ma mai piagnucolosa, cattura e priorizza l’attenzione  ad ogni apparizione per il dominio assoluto e incontrastato che ha dello schermo (il DVD uscito in questi giorni ci mostra anche le scene tagliate, quasi tutte con lui come protagonista, che ci permettono di apprezzare ancor di più  la sua immedesimazione quasi “catartica”, la sua capacità di trasferirsi davvero “anima e corpo”  dentro Dick  Ecklund, di esprimere anche fisicamente lo stesso disastroso, disarmante fascino dell’originale che catalizza veramente ogni attenzione e “distrae” dal concentrarsi sul fratellino in ombra che è poi il vero portatore del talento pugilistico che lo consacrerà alla fine nell’olimpo dei campioni). Non sono però da meno le due donne: la grintosa “leonessa”  di Melissa Leo (fantastica nell’esprimere la volgarità inquietante della sua figura),  capostipite e demiurga di una famiglia un tantino mostruosa e abnorme come quella che si è costruita intorno, e Amy  Adams, finalmente impegnata in un ruolo che le rende giustizia, e le permetter di mettere in  risalto le sue eccellenti doti anche drammatiche di interprete. 

La macchina da presa è mobile e scattante ma priva dei compiacimenti di precedenti opere di Russell, e quindi più essenziale e diretta;  il montaggio serrato e accorto; la colonna sonora firmata da Michael Brook (davvero di quelle che lasciano il segno) è di forte impatto e di avvolgente pathos, particolarmente adatta per esaltare la forza visiva delle immagini che hanno spesso – soprattutto se si implementano con  le sequenze “tagliate” al montaggio - una loro speciale e specifica  “carica”  anche eversiva che non lascia davvero indifferenti.

Sulla trama

Raccontando i fatti della “cruda storia”,  posso ricordare che sono ambientati nei primi anni novanta, ultimo decennio  “nichilista” e controverso del secolo passato . Al centro, una famiglia composita e “allargata” oltre misura, che ha un centro a suo modo “patriarcale” e una star indiscussa – in casa e nella comunità locale - in Dick , il fratello più grande, ex pugile una volta considerato “l’orgoglio di Lowell, Massachusetts, un tempo capitale della rivoluzione industriale americana e diventata ormai l’ombra di se stessa.
Proprio nella sequenza di apertura, Dick annuncia direttamente alla cinepresa,  il suo rientro nel mondo della boxe dopo una prolungata assenza durata ben 14 anni, ma non sul ring, bensì  come allenatore del fratello più piccolo Micky Ward.
Ma come la città di Lowell, ormai da tempo in forte recessione e con un tasso di disoccupazione altissimo, anche Dick non è più quello di una volta: è ormai un tossicodipendente un po’ incallito  che vive dei ricordi di un suo incontro con Sugar Ray Leonard del 1978.
Invece di andare in palestra ad allenare il fratello Dick però passa il suo tempo a fumare  crack ed è l’unico a non rendersi conto che la telecamera che lo segue costantemente, non è lì per filmare il suo trionfale ritorno sulla scena come lui immagina, ma bensì per realizzare un documentario di denuncia per conto della HBO intitolato Il crack in America.
Michy però ha anche il problema di sua madre che gli fa da manager, un avvoltoio con il becco ben infilato per nutrirsi anche economicamente attraverso i risultati della carriera di suo figlio (o meglio dei guadagni), una manipolatrice esperta che fuma come una turca, circondata da ben sette figlie a loro volta arpie demoniache capaci di trasformarsi in vere e proprie Erinni, che convince il ragazzo ad affrontare incontri anche contro pugili più grossi della sua categoria di peso welter pur di portare a casa il compenso.
Micky è dunque circondato da sfruttatori e parassiti, e non è certo sul ring (ma bensì  nella sua vita di ogni giorno) che è in grado di essere un “vincente”, visto che è proprio lì che gli “avversari” (non solo quelli contrapposti nella lotta “fisica”), lo colpiscono selvaggiamente  con i ricatti emotivi ai quali non riesce a sottrarsi.: Micky  è infatti un vero e proprio paradosso che lo fa essere - al di là delle sue doti oggettive che alla fine emergeranno - un pugile docile ed ubbidiente che non ha il coraggio di disubbidire alla ferale forza della genitrice e continua docilmente  a sacrificarsi per quella famiglia di ingrati.
Sarà l’incontro con l’indomabile Charlene che riuscirà a scuoterlo (e a convincerlo anche in nome dell’amore) che né suo fratello né sua madre hanno davvero a cuore i suoi interessi e che , se vuole aver successo e raggiungere l’apice, deve  “riscattarsi” allontanandosi da quella compagine nociva
Ma il finale alla fine qualche ulteriore sorpresa un po’ la provoca (solo però per chi non sa dalle cronache come si conclusero i fatti).

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