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In un mondo migliore

Regia di Susanne Bier vedi scheda film

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La recensione su In un mondo migliore

di logos
8 stelle

Film pluritematico, che gira su diversi livelli la dinamica della sopraffazione e della vendetta, attraversando i paesi (dalla Danimarca a una località dell’Africa indigente), le generazioni dei padri e dei figli, i rapporti coniugali, l’amicizia adolescenziale che si barrica contro il bullismo ma anche contro la famiglia, il rapporto tra scuola e famiglia, il senso della morte e del lutto.

 

Lo spostamento continuo tra il Nord e il Sud ci è dato dalla figura di Anton (interpretato da Mikael Persbrandt), un medico volontario che periodicamente va in Africa per assistere una comunità locale, non solo ferita da malattie e povertà, ma da un certo big man che sventra le donne gravide per vincere scommesse sul sesso del nascituro. Anton è un uomo razionale, appassionato nel suo lavoro, crede nella giustizia, e ogni volta che lo vediamo ritornare a casa, in Danimarca, non nasconde una certa stanchezza ma anche la consolazione del fatto che tutti quei tormenti e sopraffazioni, in Occidente, sono stati spazzati via dalla nostra civiltà. Quando ritorna, infatti, ha il tempo di riposarsi, di dialogare con i suoi bambini, in particolare con l’adolescente Elias (interpretato da M. Rygaard).

 

Ma non tutto fila liscio, nonostante le assenze di violenze e sopraffazioni fisiche nella cultura occidentale. Anton infatti è in procinto di separarsi da sua moglie Marianne (Trine Dyrholm), anche lei medica, sul posto. Il loro è un matrimonio che prometteva tutto ma è stato incrinato da un tradimento di Anton, che anche se superato Marianne non gli perdona più. Inoltre Marianne e Anton sono preoccupati per il figlio Elias, che subisce i soprusi di un bullo, rischiando di essere emarginato dall’intero gruppo della classe, con la velata complicità degli insegnanti, che pur di non mettere a soqquadro la scuola per fermare il bullismo preferiscono invitare la famiglia, in via di separazione, ed esortarla ad essere più vigile sul figlio.

 

Nel frattempo sopraggiunge Christian (W. J. Nielsen), adolescente in lutto per la madre appena deceduta per un cancro infausto, che dall’Inghilterra ritorna in Danimarca con il padre Claus (Ulrich Thomsen). Il loro rapporto di padre e figlio è spezzato, perché il figlio non perdona al padre la morte della madre, come se Claus, agli occhi di Christian, non avesse fatto abbastanza per la mamma, sperando addirittura che alla fine morisse. Christian è dunque un adolescente pieno di rabbia verso il padre, sprezzante contro le regole, ma con il vuoto dentro, perché non riesce a fare i conti con la morte. Il caso vuole che vada in classe con Elias, e prontamente Christian prende le sue difese, cercando di arginare il bullismo, ma non è sufficiente, come tutta risposta viene colpito in faccia da un pallone. Per Christian la misura è colma, in occasione di un’ennesima minaccia a Elias, sopraggiunge e prontamente colpisce il bullo e lo ferisce con un coltello mandandolo all’ospedale. A questo punto gli eventi incalzano: i genitori di Elias, nonostante i loro dissapori interni, cercano di far fronte comune su Elias, standogli affettivamente più vicino e il padre si impegna di portare in giro per la citta i suoi figli con Christian, di modo che anche questo ragazzo possa maggiormente integrarsi. Ma in un giorno come tanti, mentre stanno passeggiando e mangiando allegramente un gelato, il bambino più piccolo di Anton viene percosso da un altro suo coetaneo che si appropria dell’altalena pubblica, e immediatamente Anton li soccorre per dividerli, sennonché l’altro genitore, un meccanico litigioso e attaccabrighe, senza alcun motivo, intima Anton di stare alla larga e lo percuote con degli schiaffi. Qui Christian, con tutta la sua rabbia interminabile, rimane sconcertato per la mancanza di reazione di Anton, e lo esorta a denunciare il fatto. Anton risponde che è meglio lasciar stare, che quell’uomo è solo un balordo in cerca di rogne, quindi cerca di sdrammatizzare, ma intanto quando è con se stesso, ripreso mentre cerca di farsi un bagno nel lago quasi per purificarsi dalla brutta giornata, lo si vede immerso in tutta la sua triste impotenza, intrappolato come in una ragnatela.

 

Questa è la prima parte del film, in cui la sceneggiatura e la regia mettono insieme tutti gli elementi di un puzzle in modo compiuto, sequenziale, lucido, in tutti i dettagli, per far emergere la condizione umana, nei suoi interrogativi più radicali, che rinviano, se vogliamo, al grande cinema di Haneke. Che cos’è la civiltà? Può basarsi esclusivamente sul comune rispetto? Ma se il comune rispetto viene violato dalla violenza gratuita, su quali basi la civiltà può difendersi e riprodursi? Facendo appello ai valori? Ricorrendo al potere giudiziario? Sono domande se vogliamo facili ma al tempo stesso tremende. Facili se vogliamo rimanere su un piano astratto e formale, difficili se le vediamo in cerca di una risposta concreta, rivolta all’esistenza dei singoli, nel qui ed ora.

 

Come deve reagire un padre, nella fattispecie quello di Christian, che viene accusato dal suo stesso figlio di aver voluto la morte della mamma? Come spiegare a quel ragazzino che di fronte al dolore straziante, proprio l’amore più grande arriva a volere la morte per evitare il dolore continuo, per chi muore e per chi resta? Cosa può fare Anton, il padre di Elias, che viene aggredito da un altro genitore nel bel mezzo dell’urbanità civile? Chiamare la polizia, attirandosi altre beghe legali o addirittura ritorsioni del balordo? Ma come far comprendere ai suo ragazzi che la sua reazione in fondo è stata saggia, prudente e non vile? Sono tutte domande che poi si riconducono alla domanda fondamentale: come sta in piedi un cultura, quale valore può avere, se l’umanità che la produce non è in grado di interiorizzarla dal momento che è spinta da pulsioni distruttive? Nel mondo occidentale e civile, le istituzioni reggono, intervengono, ma solo a fatto compiuto, senza il tempo necessario per comprendere, a prescindere dagli efficienti protocolli operativi delle scienze umane, chi è il colpevole, attraverso quali vie è diventato tale, perché in fondo il loro unico scopo è l’oggettivazione dei fatti, confezionare il colpevole di fatto, rafforzando così le trame di assoggettamento, senza inficiare, in queste trame, la dinamica informale complessa e complessiva del livello personale e interpersonale, che rimane una questione aperta, libera di essere nei suo drammi invisibili e privati. Nel mondo indigente dell'Africa, invece, si sa bene chi è il colpevole, è manifesto a tutta la comunità, i drammi sono scoperti, alla luce del sole, ma non c'è niente che possa fermare la violenza, se non l'emergenza e il soccorso.

 

Non a caso il film continua, focalizzando il sodalizio tra Christian e Elias, e nel loro tempo libero, approfittando dell’assenza dei padri ne approfittano per realizzare un cammino di autoformazione all’insegna della trasgressione, fino a trovare nel magazzino del nonno di Christian del materiale esplosivo, quanto basta per fare una bomba, progettando così di far esplodere la macchina del meccanico che ha offeso e preso a sberle il padre di Elias. Il quale, a sua volta, è ora lontano in Africa, a curare non solo la popolazione locale, ma anche quel big man che scorre per il territorio a massacrare donne incinte, che si ritrova con una gamba in via di incancrenirsi. Accettando di curarlo, Anton compie un gesto incomprensibile per la comunità e giustifica il suo gesto affermando che è una questione deontologica. Anche qui, di fronte alla sopraffazione più spietata, in una comunità impotente, che continua a subire, che non ha regole sufficienti per impedire la violenza, la presenza di un medico che cura l’assassino come va letta? Un atto di civiltà, che forse può diventare l’inizio di un mondo migliore, o un atto dialetticamente spietato, che finisce per far precipitare quella comunità in un baratro ancora più straziante, dal momento che l’assassino viene addirittura legittimato dalle cure del medico? Anton è irretito in queste antinomie, avverte tutta la propria impotenza interiore, e una volta svolto il suo dovere, approfittando delle continue provocazioni sulla comunità da parte di big man lo licenzia dall’ospedale da campo, e lo lascia in balia della comunità, che così lo accerchia e può esercitare la sua vendetta con la buona pace di tutti. Allo stesso modo in Danimarca i due ragazzi sono pronti per la loro vendetta e rimettere le cose a posto: la boma scoppia, distrugge la macchina, ma nell’esplosione viene coinvolto anche Elias, per evitare che ci rimettano la vita una madre e una figlia che occasionalmente stanno facendo una corsa mattutina domenicale sul posto.

 

A questo punto tutti i nodi vengono al pettine: che cosa lascia dietro di sé tutta questa vendetta? il padre di Christian non è assolutamente più in grado di tenere a freno un figlio che continuamente lo colpevolizza, ma ora, che il figlio è stato interrogato e contrassegnato dalle forze di polizia, che cosa può fare se non assumersi la propria responsabilità e implodere come il figlio? Che cosa può fare Christian con il suo dolore sconfinato, che non sa elaborare il lutto per sua madre, che con la sua rabbia ha messo a repentaglio la vita di Elias, e che ora viene persino ostracizzato dalla madre di Elias, che in un momento di rabbia lo giudica il responsabile della morte di suo figlio? Anche Christian non ha più alcuna possibilità di riscatto, perciò fugge, e nessuno lo trova. Disperato, il padre chiama i genitori di Elias e la polizia, nel frattempo i genitori di Elias si sono rappacificati perché il loro bambino non è affatto grave come sembrava in un primo momento. Solo Anton ha l’intuizione di dove possa essere Christian, e infatti lo trova in procinto di suicidarsi, dall’altezza di un silos, dove solitamente Christian e Elias si recavano nonostante il parere contrario dei genitori.

 

In questa scena vene evidenziato un dialogo tra un adolescente e un adulto di fronte alla morte. Che cos’è la morte? Che cosa ci separa dalla morte? Ci separa un velo, dice l’adulto Anton al ragazzo Christian, e quando questo velo si toglie siamo sopraffatti dal dolore, e sembra che non ci sia più nulla per cui valga la pena di vivere, ma poi quel velo si riposiziona, e tutto, piano piano, torna come prima. Il ragazzo finalmente trova una voce che lo comprende, e viene tratto in salvo dal baratro e riconciliato con il suo genitore. Nel finale, dunque, tutte le antinomie della violenza/ vendetta/cultura si superano nella conciliazione e tutto si riposiziona nei giusti rapporti della idealità della cultura. Una idealità voluta dalla sceneggiatura e dalla regia, intenzionalmente contrapposta a tutto il dramma dispiegato del film nei suoi effetti e contro effetti sui vari e differenti piani geografici, generazionali, sociali e istituzionali.

 

Ma si tratta di una conciliazione che non può non rapportarsi con la morte, per sottolineare che il lieto fine è appunto il segno di una conciliazione tutta volatile e precaria, ma proprio per questo, nella sua caducità, va preservata, anche quando tutto sembra impossibile, perché è l’unica vendetta che l’esistenza può esercitare contro la sua assenza di fondamento. Quindi una conciliazione che non toglie nulla al dramma del film, in cui le antinomie sono sì dileguate, o meglio superate, ma soltanto in senso hegeliano, cioè sono tolte, certo, ma anche, al tempo stesso, conservate, perché l’esistenza continua, e il mondo migliore ne è soltanto la sua trasfigurazione ideale per poterla scorgere  (l'esistenza) nella sua drammaticità, nei suoi conflitti di autenticità e inautenticità, altezze e cadute, nel suo perennne instabile equilibrio…

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