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127 ore

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su 127 ore

di scapigliato
8 stelle

Dai titoli di testa, che con la tecnica dello split screen, frantumano lo schermo in più scene di massa, caotiche, sature di persone e movimenti, si passa per nulla gradualmente all’isolamento minerale dei canyon dello Utah. É fin troppo facile non dare un significato alla storia che stiamo guardando. Una storia a personaggio unico, che sebbene sia diretta da un regista inglese, è tipicamente americana. Di quella Americaness sana, però, quella che risale all’incipt della Nazione statunitense: il maschio fuggiasco nella wilderness. L’incontro/scontro con la natura è, fin dagli albori del popolo americano, il tema cardine della mitopoiesi dell’Homos Americanus. Dai captivity tales e John Smith, passando per Rip Van Winkle, Natty Bumppo, Huckleberry Finn, fino alle prove più recenti come McCarthy, Olmsted, Krakauer e McCandless, l’intellettualità americana ha sempre fatto i conti con l’elemento naturale. Il Western, per dirla come Fiedler, è il genere eletto per l’incontro con la wilderness e con il suo prodotto più perturbante: l’indiano. Ma Fiedler si ferma troppo presto, e considera western solo quelle narrazioni provviste di indiani (Leslie Fiedler, The Return of the Vanishing American, New York, Stein & Day, 1968 [tr. it. di L. BRIOSCHI, Il ritorno del pellerossa, Rizzoli, Milano, 1972]). In realtà, come dimostro nella mia tesi, La narrativa western dall’America all’Europa. L’esperienza spagnola – in via di discussione – l’elemento fondante il western è la wilderness e l’incontro con essa, con o senza indiani.

Questa lunga tradizione, a cui dobbiamo ascrivere anche il Robinson Crusoe di Defoe, ha innervato anche altre narrazioni – Fiedler parla anche di altri generi quali il Southern, Eastern e Northern – tanto da poter dire che sono la wilderness e il maschio fuggiasco che la cerca, la trova, la sfida, la vive, a fondare davvero la cultura americana, quella sana, quella delle radici. Non quella razzista e classista del presidente cowboy Roosevelt, o quella edonista di Regan e dei muscle-movie anni ’80. Che 127 Ore non sia un vero capolavoro, è sotto gli occhi di tutti, e basta il testo filmico per confermarlo. Dopotutto, l’estetica videoclippara, con le sue accelerazioni, i suoi ralenti anti-packinpah, gli inutili ipertesti e così via, non è più capace di avere una funzione all’interno del linguaggio cinematografico. Il post-moderno, se mai è esistito davvero – e Tarantino, Boyle, Rodriguez sembrerebbero confermarlo – sta tirando le cuoia da un pezzo. Insieme a questi accorgimenti visivi, ci sono anche sia il montaggio che la fotografia, che come al solito, in Danny Boyle sono un valore aggiunto. Ma se il regista fosse intervenuto sul filmico escludendo quei procedimenti, e restando più classico ed essenziale – e Sunshine ci dice che Boyle è anche minimal quando vuole – il film sarebbe potuto davvero diventare un’opera emblematica dell’Americaness. Ci riesce invece, solo in parte. E questa parte è tutta di James Franco.

Accorgersi solo ora del settantottino attore dei tre Spider-Man, Costi quel che Costi, Tristano e Isotta, James Dean, Sonny, Giovani Aquile, Milk e diversi altri tra cui Howl e i personalissimi Good Time Max, The Ape e The Feast of Stephen, è grave. Grave perché James Franco non è cambiato dai suoi primi film, se non il giusto fisiologico per un attore che si evolve. Notarlo solo ora, non ha senso. Chi scrive lo segue dagli esordi – come ho fatto con Josh Hartnett, Joseph Gordon-Levitt ed Emile Hirsch. So perfettamente che Franco non è solo bello, di una presenza fisica disturbante e padrone di un sorriso gigionesco che contenderrà lo scettro a quello diabolico di Jack Nicholson, ma è anche determinato e serio nel suo percorso professionale, così com’è ironico, autoironico, e sdrammatizzante nel fare scelte di tutt’altro tipo. Passare da General Hospital a The Feast of Stephen testimonia una duttilità, forse anche dettata dalle regole del mercato, che è soprattutto indice di una consapevolezza autoriale matura.

Il suo percorso, sicuramente altalenante e spesso anche“cileccato”, ha reso comunque James Franco l’attore nervico per eccellenza della sua generazione – quella dei nati tra la fine dei ’70 e i primissimi anni ’80. 127 Ore è solo uno dei massimi traguardi di questo percorso a tappe. È proprio la sua performazione a rendere il film una delle tante manifestazioni mitopoietiche dell’Americaness. La totalità dell’uomo solo, robinsoniano, in una terra aspra e desertica, monofocale a causa della sua immobilità; incastrato tra rocce secolari, legato con un filo alla vita attraverso i primordiali elementi del fabbisogno: acqua e poi piscio; che stimolato dalla presenza di un femminile fugace, reprime un’erezione – dov’è la chiacchierata scena della masturbazione? Se ci fosse stata, il film avrebbe ancor più rappresentato il mito dell’amore nelle foreste. Corvi lontani, acquazzoni improvvisi, formiche fastidiose. Tutto è fortemente legato alla terra senza essere necessariamente tellurico, quindi conseguentemente magico e trascendente, bensì solamente terrico, soltanto fisico ed immanente. Peccato per le scelte ipertestuali e gli effetti visivi. Senza di loro il film poteva equiparare tranquillamente il precedente Into the Wild, con cui il confronto, non solo è doveroso, ma fattibile.

In entrambi i film abbiamo due affermati autori, Sean Penn e Danny Boyle; due (per me) già affermati attori del calibro di Emile Hirsch e James Franco; due storie vere, quella di Alexander Supertramp McCandless e di Aron Ralston, entrambe dapprima documentate in un libro; infine abbiamo due ambienti naturali selvaggi. E qui iniziano le differenze ed i confronti. In Into the Wild, benchè il protagonista percorra un viaggio e attraversi vari ambienti, quello più emblematico e predominante è quello freddo del Grande Nord, mentre in 127 Ore, dove non si racconta un viaggio, una fuga vera e propria, ma un’evasione che delle precedenti conserva l’idea e lo stimolo, ci incontriamo esclusivamente con il paesaggio arido e alcalinico del canyon americano. Nel film di Sean Penn, il protagonista muore, in Boyle no, sopravvive. In Penn l’incontro con altri uomini è l’innervatura seconda dell’intera narrazione, in Boyle predomina la solitudine e il rapporto egotico del protagonista con la sua personalità. L’elemento animale, da sempre importante in letteratura come in ogni narrazione, quindi mai casuale nel suo essere, in Penn è il grande orso grizzly che annusa il rinsecchito Emile Hirsch, mentre in Boyle è limitato ad un corvo lontano, quasi totenico e nient’altro. In più, se Into the Wild era la fuga anticonformista di un giovane ribelle che vuole solo la verità, 127 Ore è l’orgasmo solitario di un ragazzo pieno si sé, egoista e sprezzante dell’alterità. Inoltre, le differenze si giocano sullo sguardo dei due registi. Penn è classico, dà voce e plasticità all’ambiente e studia gli attori come presenze fisiche, Boyle invece, preferisce appiattire la tridimensionalità del paesaggio roccioso e comprimerla negli ipertesti e nel liguaggio virtuosistico del videoclip. Fortuna c’è James Franco che combatte corpo a corpo con la macchina da presa – e la piccola digitale – e ci regala una delle sue interpretazioni più riuscite.

Il maschio che fugge dal femminile – l’ex-fidanzatina bionda di cui ha il rimorso – e dalla civiltà – la caotica moltitudine di genti e colori e movimenti immortalati nei titoli di testa – viene reso perfettamente in 127 Ore. Nonostante il peso delle scelte linguistiche del regista, il film riesce a trattare il secolare tema americano per antonomasia, e riesce a darne una variazione interessante, un nuovo paradigma che fa i conti anche con il genere americano per eccellenza: il Western. 127 Ore, è dopotutto, un western, ovvero, è la storia di un maschio che fugge dalla domesticità e s’inabissa nella natura, la vive, la sfida, ci lotta fino alla fine, compiendo in seguito una trasformazione regolarmente presente in questo genere, ma sempre silenziosa, taciuta, non-espressa: diventa lui stesso, eroe minerale.

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