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127 ore

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su 127 ore

di Spaggy
8 stelle

127 ore, 5 giorni e 7 ore, 7620 minuti, 457.200 secondi: una bazzecola di fronte alla vita di un uomo e all’eternità della Natura, tanti e tutti vitali di fronte ad un uomo aggrappato alla vita nel tentativo di rendere immortale la sua esistenza. Questa è la durata cronologica della vera odissea del giovane ingegnere meccanico Aron Ralston, raccontata da lui stesso nel libro “Between a Rock and a Hard Place”, tra la roccia e un posto duro, tra l’incudine e il martello, tra la vita e la morte. Partito per un’impresa di trekking solitario all’interno del Canyonlands National Park, nello stato dell’Utah, tra montagne rocciose e desertiche spianate scenario delle avventure western di Butch Cassidy, il giovane scivola all’interno di una fessura larga 90 centimetri rimanendo con un braccio bloccato sotto il peso di un masso che aveva accidentalmente mosso. Pochi viveri a disposizione, ancora meno acqua e bibite energetiche, con lui solo una macchina fotografica, una videocamera, le corde per le scalate, una piccola torcia e un coltellino leatherman regalo di Natale della madre. Improvvisamente la sua vita frenetica e solitaria subisce un arresto fisico e un’accelerazione emotiva. Come liberarsi? Come reagire ad una Natura che sembrava aspettarti?
In un vortice di deliri onirici, pulegge di fortuna costruite con il poco materiale a disposizione e un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza, il giovane riuscirà a riemergere dalla sua precoce tomba, tornerà all’aria aperta con la consapevolezza che qualcosa è cambiato per sempre nella sua esistenza.

Difficile confrontarsi con l’ultima opera del regista Danny Boyle senza essere trascinati dal fascino della vera storia, con Aron scivola nel baratro un’intera generazione di conquistatori del mondo, di ragazzi dotati d’ingegno e spirito agonistico che vivono in maniera tormentata il rapporto tra il loro corpo e l’ambiente circostante. Paradossalmente più l’ambiente circostante è rumoroso e in movimento più il giovane rimane isolato e fermo in uno stato di profonda solitudine, si può essere soli anche se circondati da amici e parenti, si può essere soli quando la vita stessa diventa una sfida contro se stessi. Se da un lato la sceneggiatura, rivista proprio dal regista, fa emergere l’atteggiamento di Aron come quello del solito ragazzo sbruffone, intelligente ma poco propenso alle relazioni, che non richiama una madre preoccupata e che non comunica a nessuno la meta della sua spedizione notturna, che a un diligente coltellino svizzero preferisce una cuffia per walkman, dall’altro lato è sempre la stessa sceneggiatura a costruire un film di formazione in cui un giovane privato di tutto ciò a cui fa affidamento per aggrapparsi al mondo, le proprie braccia, è costretto a rivedere l’intera esistenza alla luce dello stato borderline a cui è costretto. Ad un movimento fisico frenetico della vita di tutti i giorni corrisponde un rallentamento dell’anima, così come ad un’accelerazione dell’anima corrisponde un corpo fermo e immobile. E ciò è reso ben visibile dalle scelte tecniche che il regista mette in atto: come in un’allucinazione degna di “Trainspotting” il film viaggia spesso su livelli lisergici, mostrando visioni e sogni ad occhi aperti ricorrendo anche a ritmi da videoclip patinati, a inquadrature multiple e a suddivisioni dello schermo. La cultura pop è sempre presente, dalla musica alle immagini degli spot televisivi di un noto energizzante, ma è spiegata dallo stato catatonico del corpo di Aron, martoriato da diversi fattori: peso del masso, un’infezione al braccio, disidratazione e fame che danno lo stimolo a reagire.
 
La vita di Aron dopotutto non è altro che una sfida continua, prima con la Natura e poi con il suo corpo. Egocentrico ed individualista, come certificato dalla sua mania di protagonismo: nelle sue “spedizioni” si porta appresso sia la minima dotazione tecnica essenziale sia la massima dotazione tecnologia per immortale i momenti. Macchina fotografica, videocamera, lettore musicale sono associati a corde, coltello e a una sacca per liquidi. Si viaggia in auto di notte, si pedala su mountain bike e si fotografa persino una caduta, si esagera con due ragazze incontrate sul percorso, ci si lancia nel vuoto pur di impressionarle. Si sfidano le leggi della Natura, dopotutto è immobile e statica. Le imprese corporee sono più interessanti del futuro matrimonio della sorella o della chiamata di un genitore sempre pronto a rompere le scatole, mostrare i propri record personali ha più importanza del mostrare se stessi, volare è più stimolante che riposare, sfidare è più interessante che adagiarsi. L’estrema sfida diviene anche avversione contro un sistema di certezze e apparente noia, quasi come se il brivido di essere a contatto con la morte e superarla fosse di vitale importanza, come se per essere vivi si avesse bisogno di mostrare di non essere morti.
 
Perdere il controllo del proprio corpo, vederlo andare in rovina, assistere al suo rifiuto di un comportamento normale, sentirsi prigionieri di ciò che era la propria libertà, pone Aron, l’uomo, con le spalle al muro, consapevole dei limiti che proprio la Natura sfidata gli ha imposto. Limiti fisici, limiti spaziali, limiti visivi. Sprofondare nell’utero della roccia, coltivare le 127 ore come una lunga gestazione, essere avvolti dal liquido amniotico di un’acqua mancante apparsa in sogno: ecco cosa vuol dire rimanere bloccati dal masso. Rinascere, avere nuova vita, cambiare la propria predisposizione al mondo, riconsiderare i valori essenziali e provare a sfidare la vita per dimostrare di essere vivi, per trovare il coraggio di chiedere aiuto e accettare l’esigenza dell’altro, del suo valore affettivo.
Il pregio del regista è di aver generato una storia universale da una particolare: raccontare di Aron per raccontare la visione della vita. Poco importa quali siano le difficoltà da superare, occorre avere il coraggio di chiedere aiuto, costi quel che costi. “Ognuno sta solo sul cuore della terra ed è subito sera”, scriveva già Quasimodo, ma la solitudine di Aron lo riporta alla ricerca di quel pallido raggio di sole che gli permette di vincere il freddo della notte. Dopotutto la vita di quel corvo solitario che svolazza per l’aria non è più interessante di quella della piccola formica che in gruppo collabora anche di fronte alla maestosità di tutto ciò che lo circonda.


La consapevolezza di una morte quasi certa porta anche lo stimolo ad abbandonare ciò che ha causato quella morte stessa. Non ci si può liberare del masso ma ci si può liberare di un braccio che ormai non arpiona più, che non serve per rimanere aggrappati. Rompere due ossa, infilare le mani nel magma della massa muscolare, non ledere i tessuti molli e i legamenti, non perdere sangue: strapparsi letteralmente la morte di dosso in una delle scene più cruente viste al cinema, uscire dal buio e finalmente essere.


In molti criticheranno certe scelte di regia, come ad esempio le alterazioni visive del giovane e i messaggi che disperatamente registra ai suoi familiari attraverso la videocamera, la scelta di divenire immortali anche sul punto di morte, l’incidere la data di nascita e di morte sulla roccia. Troppo pietismo, troppo protagonismo? No, solo voglia di lanciare un messaggio, comunicare, appianare divergenze e chiarire significati di gesti inconsueti, non lasciare sensi di colpa. La scelta visionaria è solo una delle tanti percezioni sensoriali, un corpo senza acqua e senza cibo è un corpo su cui non si ha più controllo, è un corpo che vive in una dimensione parallela. Tutto si confonde: realtà e fantasia, ricordi e sogni, non si ha percezione né del dove né del quando. E in funzione di ciò accorre in aiuto la scelta di una fotografia atipica, giocata su stili differenti. Due direttori di fotografia per immagini spesso contrastanti: l’energia, il rosso, il calore della roccia fredda in opposizione all’immobilità, al buio, alla freddezza di una vita calda, da un lato la macchina da presa del regista tecnica e professionale e dall’altro la videocamera amatoriale del giovane Aron. La realtà che prende connotazioni differenti a seconda dell’angolazione con cui si guarda il tutto, la realtà che travolge e sconvolge, il reality show sulla morte in diretta e le risate in differita che accompagnano il resoconto dell’eroe intervistato.


E tutto ciò nelle mani di un solo attore, un James Franco inedito e sofferto che vive di primi piani laceranti, di sguardi esaltati ed estraniati, di trasformazione fisica. Una recitazione corporea e corporale si direbbe. Una prova dell’anima che apre gli occhi, come nella simbolica scena in cui il giovane Aron nel tentativo di recuperare acqua ingoia le sue lentine. La patina che copriva lo sguardo sulla vita è stata definitivamente rimossa.
 
Discutibile l’ultima inquadratura finale, forse un po’ banale rispetto alla vera storia di Aron, ritornato sul posto per spargere le ceneri del resto del braccio recuperato in seguito dal corpo forestale locale. Boyle sceglie invece l’inquadratura intimista, l’Aron che riprende la vita nuotando di fronte a familiari e amici, senza la protesi che oggi l’accompagna nelle sue scalate.

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