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Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su 127 ore

di spopola
6 stelle

Boyle conferma qui il solido mestiere che contraddistingue sempre il suo lavoro ma pone troppo in evidenza anche quel suo eccesso di bravura un po’ virtuosistica, il suo essere più furbo che artista, perché davvero, in questa pellicola c’è tanta (troppa) intelligenza, condita però da una corrispondente quantità di calcolo che nuoce al risultato

Siamo poi veramente sicuri che ci si trovi davvero davanti a un risultato di assoluta eccellenza? A me qualche perplessità sorge legittima, pur riconoscendo l’ottima fattura della confezione di un’opera che trovo certamente interessante, ma più costruita con la testa che con il cuore.

Qui Boyle sembra infatti  (e non è certo la prima volta che accade col suo cinema)  più interessato a dimostrare le sue capacità anche istrioniche di “movimentare” la storia di questo solitario uomo incapace di coltivare soddisfacenti rapporti umani che la natura ha intrappolato dentro a un canyon quasi a volerlo punire della sua presuntuosa dabbenaggine, utilizzando forme e modalità  un tantino dissonanti (e a volte persino provocatoriamente “esuberanti” per ricercatezza e cromatismi) che non a connotare anche nelle sue implicazioni “etiche” ed emotive la storia e il personaggio.

Il regista punta comunque anche sulla presa e sull’effetto di alcuni importanti riferimenti “simbologici” che risultano tutt’altro che secondari (e che valuteremo meglio in seguito), ma anche su singolari anticipazioni (un tantino autoreferenziali?) che se davvero percepite, non potranno che essere  valutate come innocenti ma un po’ gratuiti “vezzi” sostanzialmente innocui, ma di marginale consistenza (anche perché a mio avviso avvertibili soprattutto a una seconda visione più che al primo impatto): Aron che all’inizio, con riferimento a una sua precedente gita in montagna viene ripreso in piedi su un’enorme roccia rotonda mentre esclama: “oddio!…E se questa roccia si muovesse?…; Aron che sfrecciando a tutta velocità nel deserto sulla sua bicicletta cade a terra e rimane contuso al braccio destro, lo stesso che poi resterà intrappolato nella roccia; l’evidente,  mancato  inserimento nello zaino del coltellino svizzero (o di qualcosa di significativamente analogo), indispensabile e prioritario per un’impresa come quella che dovrà affrontare e che lascia già immaginare foschi presagi.

Meglio allora considerare la duttilità creativa di una macchina da presa che si destreggia con competente padronanza e dinamicità sia nello spazio chiuso e ristretto del claustrofobico canyon, che nelle distese rocciose aperte e assolate del deserto che si espande tutto intorno e che gli si contrappone invadente e arioso a farla da padrone, perché sui sussulti psicologici del protagonista  - che troveranno semmai uno sviluppo più approfondito nei deliri forsennati della prigionia, quando il giovane sarà inesorabilmente costretto a confrontarsi con i sui limiti - mi pare che davvero il lavoro sia stato fatto abbastanza in superficie e con una certa ovvietà: trattandosi di una storia (in)credibilmente vera, si è immaginato forse che  questo suo realismo intrinseco tutt’altro che “scontato” (che la finzione cinematografica rende per altro  più “irreale” del dovuto) fosse sufficientemente chiarificatore e non abbisognasse di ulteriori annotazioni.

Molti sono i virtuosismi tecnici che il regista mette in campo: lo si avverte (e si comprende) già all’inizio, nell’incipit, quando in split-screen, attraverso una serie di scene parallele, ci viene mostrato un primo paradosso, il turbinio del mondo e della vita dal quale forse “il testimone” scelto – l’alpinista solitario Aron Ralston - sente la necessità di prendere le distanze e di scappare, esposto a più strati e “facce” attraverso i “movimenti” quotidiani imposti dalla civiltà industrializzata. Un flusso variopinto di persone di differenti razze ed etnie rappresentato simultaneamente sullo schermo come in un puzzle che  si sovrappone senza mai  amalgamarsi fino in fondo, colto nell’esercizio delle sue funzioni ludiche o sociali e nella frenesia dei vari impegni giornalieri fra avvenimenti sportivi, occasioni lavorative e appuntamenti con le metropolitane. Il ritmo è veloce, quasi frastornante e la musica elettronica di commento è l’ideale supporto “esornativo” per sottolineare ulteriormente “il caos” che sembra generare tutto questo. La ritmica velocità del susseguirsi delle immagini che riempiono con i loro tasselli lo schermo, è spasmodica, ma lentamente lascia libero uno spazio al centro nel quale si colloca alla fine proprio il protagonista, “rivendicando” così in qualche modo l’importanza prioritaria della sua figura, mentre intorno a lui continuano a correre con le immagini, la vita e il mondo, quasi in una “ricercata” (ma anche un po’ troppo ovvia) giustapposizione visiva e sensoriale  che tende a mettere in evidenza  come programmatica indicazione di partenza,  proprio l’isolamento totale del protagonista rispetto a tutto il resto (l’uso dello split-screen tornerà poi altre volte nel corso della rappresentazione, utilizzato per esempio nelle sequenze del viaggio di Aron verso il deserto e la sua “predestinazione”,  o nella parte più prossima alla conclusione, quando è ormai intrappolato nel canyon e se la vede brutta e immagina in un specie di delirio subliminale, di avere accanto – o meglio intorno a sè, perché è così  che vengono inseriti sullo schermo – i suoi familiari seduti nei divani del salotto).

E’ quindi indubbio che sia proprio l’uso di queste immagini “sparate in parallelo” il mezzo scelto da Boyle per comunicarci l’isolamento e l’egocentrismo  di un uomo che sfida la natura e le sue leggi quasi fosse Dio (io non le leggo troppo in positivo le sue “imprese”, devo ammetterlo): un self-sufficient man  che pecca di onnipotenza e si sente orgoglioso di poter contare soltanto su se stesso senza aver bisogno di nessun altro essere umano (illusione pericolosamente fallace, come vedremo poi), capace di stabilire un rapporto più intimo e diretto non con le persone (comprese le ragazze che incontra al suo arrivo e che mantiene sempre a debita distanza, senza mai davvero “comunicare” un sentimento o un’emozione) ma semmai solo con le cose  e i suoni (la musica che ascolta con il suo I-Pod e la sua Canon camcord , che sarà poi il mezzo con cui dialogherà a distanza con lo spettatore - se così si può definire il suo delirio immaginario e un po’ onirico - quando la realtà comincia a fondersi con le allucinazioni, in un “tentativo” di contatto ipotetico (e un po’ tardivo) con chi osserva, ma che lo rianimerà e gli ridarà forza, e che si svilupperà però solo dopo che avrà rivisto e rivisitato (anche criticamente) attraverso i sogni e le febbricitanti allucinazioni, il suo rapporto praticamente inesistente con la gente, la sua mancanza di fiducia in essa, familiari compresi, e la sua naturale tendenza a respingerla, ad escluderla dalla propria visuale.

Il cinema statunitense un po’ mainstream si è occupato spesso di appassionanti racconti anche “veritieri” come questo, in cui l’uomo si scontra con una natura rischiosa ed affascinante percepita come “benigna” e amica (frutto di un retaggio romantico che è uno stigma profondo e radicato di gran parte della cultura occidentale) ma che si mostra alla fine “matrigna”, infida e pericolosa più di ogni altra cosa. Molti sono i titoli che potrebbero essere citati a riferimento, ma quello che mi viene in mente subito e che meglio rappresenta il parallelo, è il ben più straordinario e partecipato Into the Wild – Nelle terre selvagge di Penn con il quale però condivide soltanto un’affinità tematica, non certo di svolgimento. Boyle sembra infatti fallire in parte – o non centrare pienamente il bersaglio -  proprio per la sua incapacità di “appassionare” davvero: ci lascia spettatori esterni di una “rappresentazione”  che ci appare alla fine molto meno credibile di quanto non lo fosse nella realtà dei fatti (e non certo perché in questo caso, anche se a prezzo di una qualche mutilazione, la conclusione è positiva).

Cos’è allora che ci fa percepire questa “estraneità ” che sfiora l’indifferenza verso il personaggio e le sue azzardate azioni? Il tessuto narrativo è anche qui teso e a tratti estenuante, la storia è come in Penn assolutamente collimante con quelli che sono stati i reali accadimenti, ma in questo caso, il gusto per una fotografia  cromaticamente lussureggiante e dunque un po’ troppo pittorica e laccata (e come tale “artificiosa”), il ricorso a un commento musicale incalzante e “sovraesposto”, certamente incisivo e tutt’altro che disprezzabile, ma  assordante ed espanso, sono elementi che contribuiscono  troppo a “ricordarci” che siamo al cinema (e il fatto è negativo)  e che proprio di un’elaborazione cinematografica si tratta  (quindi alla fine e paradossalmente, di una “finzione”) e  soprattutto che ci troviamo di fronte a una pellicola indiscutibilmente di Danny Boyle con i suoi tanti eccessi adrenalinici, certamente diversa dalle altre – ci mancherebbe! - ma assolutamente riconoscibile (e a dispetto di quello che accade in altre sue opere, qui è proprio questa identificabilità immediata che ne impedisce la percezione empatica e ne definisce i limiti).

Certamente è una storia che rientra a pieno titolo in un filone particolarmente congeniale a un regista  che – come ha scritto Federico Pontiggia – ci ha portato addirittura sul Sole con “Sunshine”, nei labirintici meandri di Bombay – o di come si chiama adesso la città – con “The Millionaire”, e addirittura ai confini del nostro mondo con “28 giorni dopo”.  Boyle sapeva dunque di poter trovare il giusto pane per i suoi denti anche in questo sprofondare solitario nelle anguste asperità di un canyon, con l’acqua di una borraccia che lentamente si esaurisce e un macigno inamovibile che impedisce ogni via di fuga  che sembra pesare inesorabilmente anche sul possibile, auspicabile happy-ending (che pure arriverà, statene certi!), di una storia estrema di lotta per la sopravvivenza come questa.

Ma è proprio perché forse conosce anche il pericolo insito  in un soggetto così estremo e le insidie che nasconde, che  sceglie di movimentare (forse con qualche piccolo eccesso) la pesantezza estrema della situazione intervallando l’implacabile countdown del “qui ed ora” con frequenti flashback più o meno onirici , deliranti e allucinatori che emergono prepotenti dal  passato del protagonista (non è ovviamente una libertà che si prende il regista, visto che li ha ricavati pari pari dal libro di memorie scritto dallo stesso Ralston, ma un conto è leggerli come riflessioni  di una coscienza che inizia a disgregarsi, un conto è renderli invece con l’oggettività impietosa delle immagini).

Il regista ricorre  poi a una simbologia un pò elementare come quella dell’acqua (simbolo di vita e di rigenerazione?) che attraversa e percorre tutta l’opera con frequenti reiterazioni e ritorni (la borraccia riempita sotto il rubinetto dell’inizio con lo scrosciare ininterrotto e prolungato della cannella, la pozza d’acqua dentro al canyon nella quale si tuffa con le due ragazze, l’acqua risucchiata attraverso un tubicino da Aron che beve avido dalla sua fiaschetta di gomma anche quando ha raschiato il fondo e riesce a succhiare solo la sua urina con cui l’ha riempita, consapevole del rischio di disidratazione che l’assenza totale di liquidi avrebbe procurato…). Ed è soprattutto poggiato sull’acqua il vano sogno di salvezza (l’illusione “agognata”, si potrebbe dire), quando ormai allo stremo delle forze si immagina una pioggia improvvisa e torrenziale che finalmente lo disseti e lo rinfranchi, tanto copiosa e turbolenta da riuscire, convogliandosi nel canale con la  forza dirompente dei suoi flutti, persino a smuovere il masso che lo opprime nel ristretto spazio della sua prigione e a farlo uscire insieme a lui col flusso del disgorgo,  così come è ancora con l’acqua e nell’acqua che si conclude il film, con la sequenza della piscina in cui nuota il “rinato”, menomato Aron, che ricorda  e in qualche modo simboleggia,  proprio la pozza del canyon che abbiamo incontrato nella prima parte.

Aiutato dal montaggio a tratti parossistico di John Harris  e vitalizzato (ma anche un po’ penalizzato) dalla bellissima fotografia ipersatura di Enrique  Cediak e Anthony Don Mantle, Boyle tenta (e in parte ci riesce) di trasformare il percorso intimo e privato di Ralston in un diario collettivo scritto con l’inchiostro dell’adrenalina, che parla di emozioni primarie e dell’istinto che tutto può, ma qualcosa – letteralmente – anzi “carnalmente” deve concedere alla fine  (Pontiggia)

E anche Boyle, a conti fatti, in fondo concede qualche cosa allo spettatore (forse addirittura troppo): una drammaturgia un tantino “a effetto” e che per questo perde in veridicità; un pathos ad alto voltaggio e una debordante tensione un po’ ricattatoria. Non c’è di che meravigliarsi, per la verità, queste sono infatti proprio alcune delle caratteristiche costanti del suo cinema, ma qui stridono un poco con l’assunto per risultare davvero accettabilmente credibili, condensate come sono fra le strette pareti anguste di quell’infido canyon che sembrerebbero non poter lasciare alcuno scampo.

Boyle conferma dunque la consueta perizia della sua regia, il solido mestiere che contraddistingue sempre il suo lavoro, ma che mette  in evidenza in questo caso proprio per quel suo “eccesso” di bravura un po’ virtuosistica che sbandiera come una decorazione,  il suo essere più “furbo” che “artista”, il suo aver saputo fiutare l’aria nel seguire il vento, perché davvero, a mio avviso in questa  pellicola c’è tanta (troppa) intelligenza, condita però da una corrispondente quantità di calcolo.

Pollice su invece per James Franco e la sua ottima performance: l’interpretazione che dà di Aron colpisce soprattutto per la penetrante abilità con cui l’attore riesce a interpretare e fare suoi  i livelli più profondi della coscienza del  personaggio che è stato chiamato a rappresentare (ed è questo il punto di maggior forza di tutta l’operazione). Franco è infatti bravissimo a far percepire al pubblico (oltre che a farglieli indirettamente rivivere perfettamente traslati anche attraverso una eccellente capacità mimetica), tutti i sentimenti contrastanti che Aron prova durante le diverse fasi della sua prigionia: il panico, la speranza, il batticuore… la caparbietà e il non volersi rassegnare. E quando alla fine è costretto a mutilarsi il braccio, è così intensa e partecipata la sua resa, che avvertiamo l’assoluta, irrinunciabile, dolorosa necessità di quell’atto estremo.  Il modo poi  in cui  viene rappresentata anche visivamente la sequenza, quel rifuggire da ogni tentazione di truculenza orrorifica è davvero esemplare per equilibrio e partecipazione (e qui va riconosciuto interamente il merito a Boyle che avrebbe dovuto semmai riservare la stessa capacità di controllo anche a tutto il resto)  con quell’immagine del coltello che penetra  nella carne insanguinata, una piccola lama grigia e sottile, scarnificante e salvifica, che si insinua fra due lembi di carne pulsante per incidere i tessuti, segare l’osso e restituire così la libertà dei movimenti e la liberazione dall’incubo. Una sintesi davvero straordinaria che si sviluppa anche esteticamente come un efficacissimo, conciso mosaico denso di tortuose suggestioni visive, che con quel suo essere volutamente raffreddato anche emotivamente, fa davvero comprendere allo spettatore, l’indispensabilità e l’improrogabilità di quella mutilazione, e soprattutto il significato profondo di un gesto che non è solo un fatto fisico, ma rappresenta anche la metaforizzata necessità del protagonista di perdere una parte di sé per potersi alfine ritrovare.

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