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Meek's Cutoff

Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film

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La recensione su Meek's Cutoff

di leporello
8 stelle

   Chissà se davvero si può parlare di un film western... Dubbio volutamente provocatorio che mi autoinfliggo al fine di approfondire la mia conoscenza di questa splendida regista del cinema indipendente americano. Mi viene da riflettere su cosa sarebbe stato di “Meek’s Cutoff” se fosse uscito ai tempi in cui il cinema a stelle e strisce, scendendo un istante dai gloriosi cavalli di  John Wayne e Cary Grant per fermarsi a riflettere criticamente sulla storia dell’epopea dei suoi coloni, cominciò a sfornare film che tentavano di ridare ai nativi pellerossa la dignità e le ragioni di loro spettanza con film alla “Soldato Blu” e compagnia bella. Detto tra parentesi e in un rigo, mi viene oggi anche da riflettere in quale pattumiera andrebbe gettato un film come “Balla coi Lupi”, che, dopo quanto detto sopra e dopo quanto ci fa vedere la Reichardt, non sa di nulla, né di carne, né di tonni. 


    Ma forse un film come questo non poteva essere concepito 30 o 40 anni fa, e il tempo ha fatto maturare, trovando nell’intelligenza della Reichardt il terreno più fertile possibile, i frutti di un’elaborazione lunga e faticosa per gli americani stessi: come ha recentemente dimostrato il successo di critica e pubblico di “12 Years Slave” a proposito di schiavitù, l’America sta ancora lottando con i suoi sensi di colpa più profondi e radicati.


    “Meek’s Cutoff” è sostanzialmente un film sulla fiducia, su come la precarietà ed il bisogno acquiscano negli uomini (e nelle donne, con Michelle Williams splendida protagonista già diretta dalla Reichardt in “Wendy & Lucy”) la necessità urgente di saperla riporre nelle persone giuste. Ed ecco allora che il gruppo di umanissimi pionieri (nient’affatto eroi e lontanissimi dal dare l’idea che siano coloro che stiano “civilizzando” un nuovo paese, ma che al contrario mettono a nudo tutto il loro bisogno di “chiedere” a questo paese di venir loro in soccorso), deve scegliere se fidarsi di Meek, spaccone e sapientone, pontificante sui caratteri di questa o di quella tribù indiana, oppure fidarsi di un selvaggio  dall’aria stracciona, fatto inutilmente prigioniero, col quale sono in grado di comunicare solo a gesti, a sguardi, a segni incomprensibili tracciati sulla polvere.


    Il girare a vuoto della carovana non è  casuale, men che meno onanista o perditempo: la Reichardt ama lasciare aperti i finali dei suoi film, si ferma sempre un passo prima del traguardo del “giudizio”, un’inquadratura prima che l’ultimo fotogramma dica allo spettatore “come va a finire”, ha sempre una parola in meno prima che qualcuno possa sentir pronunciare la parola “Verità”. Nel vuoto girarsi attorno, e nei passi lenti dell’indiano che, nel finale, procede verso un infinito ben lontano dal poter essere conquistato, Kelly Reichardt lascia intatte tutte le domande sorte fin dall’inizio, ed individua ed alloca nel vuoto girarsi intorno quello che è forse, ancora oggi, un problema reale per gli americani contemporanei. E non solo per loro, naturalmente.

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