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Post mortem

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su Post mortem

di spopola
8 stelle

Personale e rigorosissima questa indagine a ritroso nella memoria (la funesta Santiago dell’infanzia del regista ai tempi del golpe). La diagnosi è inequivocabile e la conclusione disturbante: le responsabilità non sono soltanto di chi ha compiuto materialmente l’atto, ma coinvolgono anche coloro che ne sono stati i fiancheggiatori.

Nella mia personale graduatoria di gradimento relativamente a ciò che è stato presentato nella passata stagione cinematografica, Post mortem di Pablo Larraín occupa uno dei primi posti (se non il primo in assoluto) e sono di conseguenza particolarmente dispiaciuto che sia rimasto di fatto un vero e proprio “invisibile” nonostante il suo sconvolgente valore (o forse proprio per questo): emarginato dalla distribuzione, è stato infatti poi snobbato anche dal pubblico che in pratica ha disertato in massa le poche sale dove è stato programmato solo per un brevissimo lasso di tempo insufficiente anche per il “passa-parola”. Ha  finito così per mancare a un appuntamento importante e altamente “formativo”, che gli avrebbe invece consentito di confrontarsi con qualcosa di  lacerante e duro che riguarda non solo la Storia, ma anche la piccola cronaca di ognuno, intesa  come la spicciola esistenza quotidiana dell’uomo, poiché qui le due cose si intrecciano indissolubilmente. Così inscindibili, che davvero nessuno può considerarsi esente (come responsabilità diretta o indiretta) rispetto agli eventi narrati e alle loro conseguenze, e men che mai può pensarne di poterne  rimanerne completamente fuori, o peggio ancora, pretendere di essere assolto. 

L'organizzazione della messa in scena poi,  è di straordinaria efficacia nella sua crudezza esplicativa particolarmente dolorosa e disturbante, proprio per le implicazioni (soprattutto etiche) che ne derivano e che non possono non scuotere le coscienze, perché è un film che fa davvero stare male col suo rigore essenziale che diventa la precisa e puntuale cifra stilistica di una rappresentazione delle cose che suscita forti emozioni e sgomenti  altrettanto viscerali, con quel senso di precario,  di  disumano e di laido che trasmette e si porta dietro, visto che il film si interroga (e ci fa riflettere) proprio sulla programmazione, la pianificazione e le infamie di tutte le dittature (dichiarate o sotterranee, non fa alcuna differenza), sui troppi silenzi che spesso le circondano e le nutrono, e sulle connivenze morali di ogni livello e gradazione che ne alimentano il potere, e che spiega di conseguenza come il virus che genera certe aberrazioni, abiti di fatto in ognuno di noi, e quanto sia profondamente radicato nella natura umana (anche in quella dell’uomo comune), magari addormentato in qualche nascosto recesso dell’inconscio, ma pronto a risvegliarsi all’occorrenza non appena se ne presenta l'occasione.

Un altro positivo risultato dunque quest’ultima opera del regista cileno,  ancora più potente e spiazzante della precedente, che conferma il suo non comune talento: possiamo ben dire in effetti che è nato un nuovo eccellente Autore (la lettera maiuscola è voluta), anche se purtroppo sembra che se ne siano accorti davvero in pochi, almeno qui in Italia.

 
Come ben sappiamo, Post mortem è un termine che  indica quei fenomeni che seguono la morte anche in senso tecnico, come appunto l’autopsia che si esegue sui cadaveri (tema centrale nel film di Larraín), ma che qui non riguarda strettamente e solo “quella” pratica e “quella” professione, ma intende avere invece un respiro e un significato ben più ampio,  che consente al film di acquisire  un valore (e un peso) molto più inquietante e universale, quasi emblematico,  poiché di fatto il regista sul tavolo dell’obitorio per dissezionarlo, fa stendere simbolicamente addirittura un intero paese, il Cile, colto nei tragici giorni del golpe di Pinochet del 1973 (un altro sinistro 11 settembre non meno doloroso e terribile di quello americano, come ha ben ricordato Ken Loach con il suo episodio inserito nel film 11settembre 2001).
Nato solo tre anni dopo quel cruento colpo di stato, Larraín come un  esperto e competente anatomo-patologo di professione,  affonda così brutalmente il bisturi (la sua cinepresa) nel ventre putrefatto della nazione per fare una ricognizione sui corpi e sulle coscienze, finalizzata proprio ad individuare le cause di quel morbo tanto terribile e infettante che fece precipitare quel paese nel baratro di una dittatura sanguinaria durata ben 17 anni.

Dopo l’altrettanto bellissimo e ugualmente “invisibile” Tony Manero con il quale nel 2008 aveva  già impietosamente descritto la sua martoriata terra sotto il pugno feroce di Pinochet, compressa fra il dramma di una dittatura feroce capace di insinuarsi in troppo coscienze e di condizionare ogni aspetto della vita quotidiana e il mito aberrante del consumismo americano pronto  a sua volta a riempire un vuoto e un isolamento con quella sua paccottaglia di cultura  e di icone mediatiche capaci di stravolgere l’immaginario dei semplici e di relegare ogni cosa in una specie di dissociazione quasi schizofrenica, con questa sua nuova fatica il regista rende ancora più esplicito il suo personale, rigorosissimo percorso nella memoria ritornando direttamente alle origini, e quindi alla funesta Santiago della sua infanzia, quando i blindati  che intasavano le strade invadendole, calpestavano ogni cosa, stritolando anche i cadaveri disseminati un po’ dappertutto, e la nefasta musica metallica dei loro cingolati rappresentava la minacciosa colonna sonora di uno sbigottito, doloroso ed impotente martirio, che diventa così il punto di vista di un “vissuto” anche personale, che si percepisce da subito come uno degli elementi portanti della pellicola, per altro già perfettamente enunciato  nella  magnifica breve sequenza di apertura che varrebbe da sola la visione del film, anche per come è stata “costruita” visivamente.

Il suo necessario “viaggio a ritroso”, ha però soprattutto l’obiettivo di fornirci, a indagine conclusa, una diagnosi spietata e  particolarmente “disturbante”, che indica inequivocabilmente come la responsabilità del “male” (di “quel” male) che la brutale dissezione ha individuato e  riportato a galla con assoluta evidenza, non è attribuibile soltanto a chi ha compiuto materialmente l’atto e la prevaricazione (il golpe), ma coinvolge anche  coloro che ne sono stati fiancheggiatori (coscienti o inconsapevoli), fomentandolo e tollerandolo con l'ignavia, la frustrazione, la noncuranza, il menefreghismo o il tornaconto (la “silenziosa” massa di cittadini  passivi e indifferenti) rendendo così possibile quella dittatura antistorica, crudele e prolungata: esattamente come Mario, il protagonista, l'emblematico rappresentante di quella classe media (e mediocre) di veri e propri “morti viventi” dall’esistenza grigia e solitaria, che tutto lascia scorrere con apatico distacco ed acrimonia badando soprattutto al proprio interesse personale a cui solo l'impiego, il lavoro svolto, conferisce  un ruolo sociale identificativo di riconoscimento e appartenenza, un ceto attento esclusivamente a perpetrare consuete ritualizzazioni di ordinario, ed estremo squallore nella loro ripetitività un pò ossessiva (come la preparazione dell’uovo al tegamino per la cena o la masturbazione quotidiana) fregandosene di tutto il resto.

Post mortem parte proprio da queste considerazioni, e da lì, penetra poi lentamente e in diretta  “dentro” la condizione umana del protagonista,  analizza  la sua passività e la sua crescita emotiva con le modificazioni e le contraddizioni anche in negativo che ne conseguono, mentre intanto tutto intorno si sta compiendo fatalmente la tragedia. Larraín va però poi anche molto oltre quella che potrebbe limitarsi ad essere la semplice rievocazione ragionata di una disastrosa rovina (individuale e collettiva) che collocherebbe inesorabilmente lo spettatore nel  “dopo”, e quindi nella condizione di valutare le cose col senno di poi, perché per lui è invece molto più importante (e fondamentale) del “raccontare” i fatti a posteriori, il capire e far comprendere (ed è proprio questo che principalmente gli interessa) la genesi (non tanto politica quanto individuale), ciò  che  è accaduto nei comportamenti mentali di troppe persone, per farci così percepire pienamente  (ed anche riconoscere in tutto il suo orrore)  la malvagità profonda e crudele dei tanti Pinochet  (e dei loro conniventi passivi) che hanno attraversato le sacche buie dell’umanità e ammorbano ancora la quotidiana esistenza di molte Nazioni, spesso così occultati e “camuffati”, da renderne difficile l’immediata riconoscibilità.

Perché l’odio (e la sopraffazione) non riguarda solo la gestione del Potere e il suo diretto controllo sul sociale, ma nel suo piccolo (e certamente non con minori responsabilità), coinvolge davvero ognuno di noi proprio nel nostro agire quotidiano. E non è allora un caso che parallelamente alla storia di un paese, sia proprio quella di questo  insignificante uomo-registratore a suscitare altrettanto raccapriccio, perché - sembra voler sottolineare impietosamente il regista - molti dei cileni di allora, esattamente come il Mario della pellicola, trovarono più urgente e prioritario privilegiare la soluzione delle proprie personali sciagure, mantenere ben nutrita la propria pancia o consumare vendette private, piuttosto che far sentire la propria voce, prendere posizione e ribellarsi a quella funesta caduta verticale di una Nazione messa in ginocchio e umiliata non solo nella carne dei suoi figli, ma anche nel sogno di una libertà troppo presto ricusata dopo tante orgogliose speranze così tragicamente disattese.

 

Mario è nel film un dattilografo che lavora all’obitorio,  un impiegato che assiste alle autopsie  con l'incarico di trascriverne i referti, un uomo “anonimo” e incolore che coltiva soltanto una passione, quella per Nancy, la sua vicina di casa, figlia di un militante comunista che lavora come ballerina in uno scalcinato locale della città. Tra loro però non ci sarà alcuna possibilità di comunicazione e d'intesa, e quando lui le chiederà di sposarlo, lei non potrà che trattarlo con disprezzo evitando persino di dargli una risposta, tante sono le differenze che li dividono.

Quando nei giorni del golpe la casa di lei verrà devastata, per cercare di dare una dimensione più concreta al suo sogno, Mario proverà a ritagliarsi un provvisorio ruolo da soccorritore così lontano dalla sua natura,  improvvisandosi persino altruista, ma solo fino a quando rimarrà aperta in lui una speranza di soluzione positiva del rapporto. Porterà infatti da mangiare alla ragazza nel suo nascondiglio segreto per far inutilmente breccia nel suo cuore, ma rimarrà ugualmente sordo ai rumori della violenza che si sta consumando di fronte alla sua casa e tutto intorno, anche se non potrà fare a meno di “vedere” – perché quello è il suo lavoro - i cadaveri che arrivano sempre più copiosi  all’obitorio, così tanti che non si riesce a starvi dietro non solo con la burocrazia e la catalogazione, ma neanche con l’emissione dei referti.

 

Mario ha  il corpo e le sembianze di un grandissimo, imperturbabile, immenso  Alfredo Castro (l’impareggiabile attore che nel film precedente sognava di  emulare John Travolta), che qui molto più semplicemente (ma con altrettanta magnificenza interpretativa), fantastica invece  di poter disporre di una donna non più giovanissima da sposare ed amare. I suoi tratti però non sono meno spettrali di quelli delle vittime della mattanza  perpetrata dai solerti “carnefici” al servizio del tiranno, perché si porta appresso lo stesso desolante orrore di quella carneficina, sia quando registra con burocratica precisione tutti i dettagli degli esiti delle autopsie, sia quando entra in contatto furtivo e casuale, ma comunque distorto, col resto della vessata umanità  della sua nazione dissanguata. Il terrore che sta montando sempre più e la maggiore importanza conferita dai militari al suo lavoro di trascrittore di referti con quel bailamme crescente di cadaveri, lo convinceranno anzi ad obbedire con più solerzia agli ordini e a svolgere il suo compito con orgogliosa baldanza, senza mai tirarsi indietro nemmeno di fronte alle  prove più ributtanti, ardue e dure.

La scelta di un così particolare punto di osservazione, che lascia fuori dalla vista gli scontri di piazza per descrivere e rappresentare il massacro  solo con quelle potenti e strazianti scene di “post-mortem” che rimangono indelebili nel ricordo, dà modo a Larraín di rileggere la Storia recente del Cile  così segnata dall'autoritarismo, come se si trattasse di una lunga,  interminabile sequenza di sopraffazione e di morte, una morte che si cementa proprio dentro la dimensione chiusa e privata dell’uomo comune senza minimamente intaccare la sua coscienza.

L’a-politico Mario, il cui unico interesse era la devozione frustrata per Nancy,  proprio per questo suo essere “insensibile” ed egoisticamente attaccato ai suoi bisogni, si renderà quindi diretto e volontario responsabile dell’assassinio della democrazia esattamente quanto gli ufficiali dell’esercito e il medico reazionario che presiede alle autopsie che ne evidenziano la conseguenza più immediata e cruenta. E infatti, quando anche quell’ultimo argine affettivo verso la donna cadrà definitivamente, non rimarrà più alcun appiglio, e l’uomo si trasformerà a sua volta in un implacabile aguzzino e un feroce assassino “per procura”, contribuendo così, al pari dei nuovi padroni del paese,  a far scomparire - non solo simbolicamente - un’intera generazione.

Come si è visto però, oltre ad essere un film sulla Morte (fisica e metaforica)  Post mortem è anche il racconto di come la spietatezza del Potere può proliferare ed estendersi  al comune cittadino che lo appoggia, oltre che il resoconto indiretto di una disperata lotta di resistenza che ha prodotto inevitabilmente un cumulo infinito di corpi trucidati e torturati accatastati ovunque o riversi sul tavolo delle autopsie insieme ai resti di Salvador Allende, un cadavere martoriato che ci viene crudelmente mostrato disteso in quel letto di ghiaccio  dell’obitorio pronto per la putrefazione di tutte le democrazie, dove assistiamo inerti ed impotenti all’ulteriore supplizio di un’autopsia che sembra immortalata da un Rembrandt e un Bacon accomunati insieme (Adriano De Drandis), una  sequenza di straordinario effetto ed efficacia  che si sviluppa intorno a una salma fatta a pezzi (e in qualche modo oscenamente oltraggiata) in una scena davvero sconvolgente che è destinata  a restare  nella Storia del Cinema come uno dei momenti più forti e rigorosi, esteticamente ed eticamente, come ha giustamente osservato Mauro Gervasini.

Niente plateali esposizioni un pò grandguignolesche, però, anche se raramente il cinema ha toccato analoghi livelli di empietà come in questo caso: Larraín sembra anzi  voler quasi sfiorare l’astrazione  nel suo “ricostruire” ogni cosa  per sottrazione con un percorso stilistico e strutturale che si affida soprattutto  (e per fortuna) alla solenne potenza delle immagini, limitando persino l’uso delle parole per poter così far concentrare meglio l’attenzione dello spettatore su ciò che lo schermo fa vedere e che si stampiglia indelebilmente nel cervello, come nell’ultima,interminabile, “insostenibile” sequenza a camera fissa (addirittura agghiacciante), volutamente  privata di ogni possibile sottolineatura emotiva, o compiacimento pittorico o  musicale, dove è proprio il fuoricampo (ciò che non si vede)  a racchiudere e a rappresentare l’estrema crudeltà di una persona ormai incapace di un briciolo di pietà,  quando la malvagità, il disprezzo e il disappunto di un singolo uomo finisce per diventare veramente la proiezione e lo specchio di una altrettanto disumana concezione delle cose, quella di una dittatura  barbara e scellerata  che si è gia riverbera  nelle urla dell’infermiera in quell’ospedale  dove ormai è impossibile contare i cadaveri, un altro straordinario momento di grande cinema che racchiude e “sigilla” come meglio non sarebbe stato possibile fare,  il dramma di un tradimento e una sopraffazione. E’ proprio in questi  momenti cruciali infatti che Larraín  riesce a coniugare magnificamente il “pubblico” con il  “privato”, condensandoli in un unico avvilente percorso dove lo squallore e la miseria, il terrore e l’olocausto, diventano gli elementi predominanti dell’intera messa in scena.

Qualcuno – evidentemente  incapace di comprendere davvero  il senso delle cose  mostrate (ma credo che si sia trattato soprattutto di evidente malafede) - ha sibillinamente  sottolineato che se il regista ha fatto un assioma tanto devastante,  crudele e irrazionale, quasi insensato, è segno che  odia profondamente il suo paese,  stigmatizzando biecamente che un fatto tanto indecoroso  deve essere osteggiato ad ogni costo: non a caso, un film di una potenza estrema come questo, pur passato da Venezia, non ha avuto nessuna menzione ufficiale o premio, totalmente dimenticato dalla distratta e un po’ superficiale giuria tarantiniana  abbindolata soprattutto dall’intellettualistico, inconcludente cazzeggio (ancora De Drandis) di Somewhere che come ben abbiamo poi potuto constatare, anche come consistenza formale della rappresentazione, è nettamente inferiore al film di Larraín, e non gli lega nemmeno lontanamente le scarpe (reminiscenze senili di una antica attrazione carnale rianimata dalla nostalgia, o ordine sotterraneo di scuderia che qui da noi si ripresenta invariabilmente ogni volta che i temi sono troppo politici e soprattutto scottanti e “sgraditi” al potere come in questo caso, talmente inquietanti e trasversali come sono da poter essere letti persino – sia pure in una dimensione meno tragicamente estremizzata - quasi come una velata similitudine comportamentale  tutta nostrana?). Io propendo ovviamente per la seconda ipotesi ma lascio ai posteri l’ardua sentenza!!!. A pensar male si sbaglia però ben di rado: magari ci fosse invece anche da noi qualche autore di genio ugualmente capace di affondare la lama con altrettanto lucido astio nel nostro mai abbastanza indagato passato e in questo morto presente (Barbara Corsi) per rappresentarci il vero volto di questa povera Italia e del suo popolo di abulici indolenti  che si lasciano passare addosso come niente fosse le più terribili nefandezze senza scomporsi troppo!

Tornando al film, non avendo molto altro da aggiungere, concludo riportando integralmente la frase di chiusura del bellissimo pezzo di LorCio che ben sintetizza il lavoro del regista e ne esprime perfettamente il sensoAutopsia di una nazione morente che si avvia verso l’inferno di Pinochet, Post mortem racchiude l’essenza del suo apologo nella terribile scena finale, quanto di più privato il dolore può manifestare.

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