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Ballata dell'odio e dell'amore

Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film

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La recensione su Ballata dell'odio e dell'amore

di scapigliato
10 stelle

Era l’estate del 1995. Per riempire le giornate si guardavano film horror o dal dubbio gusto estetico – Reanimator su tutti. Un giorno abbiamo visto Acción mutante (1993) e il giorno dopo El día de la bestia (1995) appena uscito in videocassetta. Ci siamo completamente dimenticati di Cabal e di Whore – Puttana, altri due cult dell’estate calda, e abbiamo iniziato a coltivare il mito di Álex de la Iglesia.

Da quel giorno ho iniziato personalmente a vedere nel regista bilbaíno uno dei massimi registi del contemporaneo europeo, secondo a nessuno, diverso e inclassificabile, capace di esaltare l’effervescenza adolescenziale con titoli come Acción mutante, El día de la bestia e Perdita Durango (1997), e di accontentare la critica più adulta con altri titoli di squisita cattiveria sociale come La comunidad (2000) e Crimen Ferpecto (2004), senza nulla togliere al tiepido omaggio leoniano di 800 balas (2002) – che è anche una denuncia contro la crisi e la speculazione dei lavori più umili – e alla vacanza giallo thrilling in terra inglese con il sottovalutato, intrigante, erotico e sottilmente perturbante The Oxford Murders (2008) con cui ritorna al cinema dopo la felice parentesi televisiva di La habitación del niño (2006).

Con il pluripremiato Balada triste de trompeta – premio speciale alla regia e miglior sceneggiatura al Festival di Venezia 2010; il Méliès d’Oro a de la Iglesia nel 2011; miglior trucco e migliori effetti speciali ai Goya del 2011 più le nominations come miglior film, regia, attore, attrice e sceneggiatura; miglior film straniero in lingua spagnola al Argentinean Film Critics Association Awards nel 2012 – Álex de la Iglesia torna alle sue origini bizzarre, grottesche, sociopatiche e orrorifiche che hanno fatto del suo “toque” qualcosa di unico e di inimitabile. Il trait d’union tra la bislacca ciurma disabile di terroristi, la fauna diabolica dei cacciatori del diavolo, gli stregoneschi avventurieri borderline del confine messicano e questi pagliacci psicopatici, maniacali e autolesionisti è sicuramente l’amore del regista per i freaks e tutto il mondo emotivo e immaginifico che ruota intorno a loro.

La triste ballata suonata a trombetta che accompagna i momenti più intimisti del film, quelli in cui il clown assassino trascende l’infante che porta dentro, e torna ad essere quel feto non ancora partorito, è anche la colonna sonora dell’interruzione lineare del caos grammaticale e della brutalità linguistica con cui de la Iglesia confeziona l’intera pellicola. Un roveto di immagini antinaturalistiche, acrobatiche, iperreali, fotografate con esagerazione, coreografate con impeto barocco, montate con sincopata cattiveria e incuranza della norma pattuale con lo spettatore, recidendo quel tacito accordo per cui la linearità di un film è la sua più immediata e facile comprensione. Le scene, e addirittura le inquadrature di ogni scena, si rincorrono turbinose in fasi di climax e anticlimax, come se ogni sequenza fosse l’ultima.

Un unicum nella filmografia iglesiana per assenza dichiarata di sobrietà e misura, come per accumulazione di pornografia della violenza, autolesionismo, maciullamenti, corpi che si sformano, situazioni paradossali che diventano la quotidianità invece che restare scintille di follia, schegge della monomaniacalità di un personaggio depravato e pericoloso, tipico antieroe iglesiano.

Quasi non c’è intreccio, ma solo giustapposizioni di causa/effetto, precise nel rappresentare la vicenda e puntuali a svelare l’estetica e l’autorialità del regista. Una pellicola, inoltre, che non si ferma alla sua prima pelle, ma che affonda il suo senso post-moderno nella rielaborazione personale di un immaginario che va da Hitchcock a Tarantino, e che coinvolge la figura archetipale del clown assassino, e che scomoda la tragedia lirica, porta in scena una paurosa cenerentola in un paese delle meraviglie orrorifiche, dove reietti, sfigurati, doppelgänger, animali e franchisti sono i supporters di una versione de La bella e la bestia al contrario, in cui prima c’è il principe e poi la mutazione in bruto.

Se Tarantino crivellava di colpi Hitler in Bastardi senza gloria, de la Iglesia fa mordere la mano a Francisco Franco da un uomo-bestia rinselvatichito per la gioia venatoria dei “colonnelli”, uccisi a loro volta dall’ira funesto-clownesca. L’approssimarsi del destape, con la caduta di Franco e di tutto il regime fasciocattolico, permette al regista di giocare sulla sovrapposizione di bestialità e normalità, attribuendo entrambe a ogni protagonista e senza schierarsi mai manicheamente da una parte o dall’altra della barricata politica – anche se l’odio verso il franchismo e tutte le brutture da esso partorite sono esemplificate appunto dall’innocenza di un pagliaccio triste che si trasforma in una macchina assassina.

Il clown, che già di suo è ambiguo e inquietante per la sua maschera triste che gli deforma il volto in una smorfia di dolore mentre ci delizia con gag di amara comicità, è qui ripreso come metafora della perturbazione della società davanti alle sue stesse mostruosità. Se il conflitto trai due pagliacci sfigurati, oltre a riecheggiare il mito del doppelgänger, è una guerra tra poveri mostri, le mostruosità che li hanno portati a tanto sono esse stesse lo specchio deforme in cui si riproduce la società spagnola alla fine della più lunga dittatura fascista della storia.

Il film, come accennato, coinvolge la favola – una favola nera – la lirica, la tragedia, la disperazione moderna scespiriana, Hitchcock e tante altre sottili citazioni culturali con cui Álex de la Iglesia vuole dimostrare come l’immaginario di cui ci nutriamo oggi guardandoci indietro è talmente atomizzato e centrifugato da essere sempre e ripetutamente reinterpretato e riprodotto, palesando elementi comuni e subito riconoscibili, e altri invece specifici ed eccezionali, interpretabili solo nel momento privato della fruizione. Il suo cinema, che regolarmente affonda le mani nella debolezza della carne umana massacrandola sull’esempio cronemberghiano, ma restando più popolare, in linea con la exploitation spagnola di Jess Franco e Paul Naschy, è un cinema che definire grottesco è riduttivo. È un cinema postmoderno dall’anima moderna, fino romantica: è puro esperpento.

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