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La donna che canta

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su La donna che canta

di michemar
10 stelle

E’ capitato a tanti di incontrare casualmente una persona e innamorarsi di colpo, immediatamente. Nella stessa maniera ignara, una sera di qualche anno fa mi imbattei casualmente sul canale che trasmetteva questo film e ne rimasi letteralmente stordito, anzi trafitto. Ero talmente rapito che non mi resi conto di aver assistito alla proiezione di quello che oggi reputo ormai il film più bello della mia vita, o almeno così mi parve e paradossalmente mi succede ancora adesso quando, dopo aver comprato il DVD, l’ho tenuto lì tanto tempo, fermo, per godere della visione successiva tanto desiderata.

Nawal e Jeanne sono madre e figlia e ripercorrono entrambe lo stesso tragitto nelle terre martoriate di un Medio-Oriente non ben identificato, nella zona tra la Cisgiordania, la Palestina, il Libano. Non è il destino che fa ripetere alla figlia Jeanne il percorso della madre, è la forza della volontà che spinge la figlia e che spinse la madre, è la ferma e coraggiosa voglia di arrivare alla verità che diventa destino. Nawal Marwan lo fa più di un paio di decenni prima nella disperata e impossibile impresa di ritrovare un figlio strappatole dai familiari perché lo aveva partorito per amore ma con un uomo da loro non gradito e da loro immediatamente giustiziato: lei cristiana e lui arabo, inammissibile e insopportabile per la famiglia di lei. E non lo ritroverà mai o forse tragicamente, troppo drammaticamente sì.

Jeanne deve rifare la strada tracciata dalla madre perché nel testamento lasciato a lei e al fratello Simon ha lasciato due lettere che devono recapitare assolutamente: una per il padre sconosciuto a loro e una per un fratello che neanche pensavano di avere. La ragazza così viene a conoscere chi veramente era Nawal Marwan e quante sofferenze aveva dovuto patire, che donna forte era stata sua madre, cosa aveva dovuto e saputo sopportare per aver vendicato la perdita di un bambino, frutto di vero amore. E perché la mamma era stata soprannominata la donna che canta.

 

 

 

Solo la necessità di arrivare alla verità, che anima tanto Jeanne, le dà il coraggio e la forza di non arrendersi davanti alle ostilità che incontra nella ricerca e smuove finalmente anche il fratello Simon che non voleva aiutarla, forse per la paura di trovarsi davanti ad una realtà che non vuol conoscere:”Stai zitto e vieni con me. E’ compito tuo trovare nostro fratello, se non lo vuoi fare per per lei o per te stesso, fallo per me!” Infatti quello che scopriranno sarà tremendo, da lasciare sbigottiti: perché “Uno più uno fa due!”Anche un potente testimone di quei tempi cerca di fermarli: “A volte è meglio non sapere tutta la verità”. Ma come afferma il notaio, presso cui lavorava Nawal e che ha custodito le sue due lettere, la morte non è mai la fine di una storia. La fine della vita di Nawal è l’inizio della loro ricerca, al di là delle frontiere e attraverso il tempo, in un passato che non conoscevano.La scoperta della verità fu l’inizio della loro vita.

  

Per arrivare al finale che ci rimarrà nella mente per sempre è necessario tenere salda la testa e il cuore, seguire passo passo la tragica storia di Nawal e l’indagine affannosa di Jeanne e Simon, non distrarsi un minuto, perché il film si tinge quasi di thriller (poi il davvero sorprendente regista Denis Villeneuve difatti si butterà anima e corpo nel genere, con Prisoners e con Enemy) e come in un thriller lo spettatore deve prestare continua attenzione. Villenuve non ci concede mai un attimo di tregua, ci porge continuamente scene una più drammatica dell’altra, ci mostra con crudezza (senza mai eccedere in scene di violenza fisica, ma solo fisica!) la insanabile ferita di quelle martoriate terre, ci conduce sino al pugno nello stomaco del finale e a noi spettatori non rimane che respirare con calma per riprenderci.

Di Denis Villeuve è diventato ormai un hobby inutile sprecarsi in elogi, piuttosto mi piace far risaltare come la prova delle due protagoniste, Lubna Azabal e Mélissa Désormeaux-Poulin, è davvero convincente, esaltata anche dal fatto che si rassomigliano così tanto che nel montaggio che le mostra quasi in parallelo – anche se a distanza di anni - quando attraversano la polverosa e sassosa campagna e i villaggi arabi si può quasi confonderle. E ciò dà maggior forza alla immedesimazione della figlia nella figura della madre.

 

Tratto dall'opera teatrale di Wajdi Mouawad, libanese naturalizzato canadese, Incendies è il fuoco che brucia nelle aride campagne medio-orientali, è il fuoco di un bus di innocenti, è il tatuaggio su una caviglia, è la violenza degli stupri, è la musica dei Radiohed, è l’incendio della mente e dello stomaco, è la ferita che lascia per sempre questo film incredibile.

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