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Hereafter

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Hereafter

di spopola
8 stelle

Solo il tocco magico di Clint Eastwood poteva tramutare il tabù della morte in un inno alla vita e alla speranza: questo è l’ennesimo prodigio compiuto da un regista ottantenne che film dopo film ci sta davvero abituando male e ci vizia (anche spiazzandoci un poco) con lo standard elevatissimo di pellicole che mutano ogni volta vento e direzione

(…) L’’immagine – a contatto con il meraviglioso enzima dell’inverosimiglianza (sentire i morti? vedere l’aldilà?) – si affila, assume un nitore e una forza devastanti, si fa gioiello orgoglioso, pura sede del mistero e dell’indicibile. (Massimo Rota)

 

Soltanto il tocco un po’ “magico” di Clint Eastwood poteva tramutare il tabù della morte in un  inno alla vita e alla speranza, e il delicato risultato raggiunto con Hereafter, è l’ennesimo prodigio compiuto da un regista ormai ottantenne che nulla ha perso della freschezza del suo sguardo, e che film dopo film ci sta davvero abituando male e ci vizia un poco(anche “spiazzandoci” qualche volta) con lo standard elevatissimo delle sue pellicole che mutano ormai ogni volta vento e direzione.

.(…) Non è un film che arriva adesso che ho raggiunto ormai gli ottant’anni e mi avvicino anch’io a “quel” momento cruciale quello che ho fatto: so che qualcuno lo ha pensato e scritto, ma non è vero perché avrei potuto realizzarlo anche a quarant’anni. E’ lo script che è molto interessante e anche allora mi avrebbe sicuramente colpito come è accaduto adesso se mi fosse capitato fra le mani. Inoltre è un film scritto in maniera molto inusuale: pochi prenderebbero un operaio e ne farebbero un appassionato lettore di Charles Dickens, il cui mondo privato e  letterario è alla fine anche il perno centrale delle storie concentriche che racconto.  E’ semmai possibile che oggi l’abbia  girato diversamente da come lo avrei  potuto fare all’epoca, dal momento che sono più vecchio e ho maggiore esperienza. (…) Guardare il dilemma di ognuno dei personaggi e vederli raggiungere ciascuno la propria soluzione, mi affascinava proprio. Perché in Hereafter  c’è anche il soprannaturale, certamente, ma solo nel senso che nel mondo c’è molta gente che se ne interessa, non per altre ragioni trascendentali. Non si deve necessariamente credere per davvero nell’aldilà e nella sua esistenza per appassionarsi al percorso anche traumatizzante di chi ha vissuto esperienze di quasi-morte, e che per questo però non possono essere confuse con la morte vera e propria. (…) Io sono il genere di persona che chiede che le cose vengano mostrate e dimostrate. E non ho voglia quindi di sbirciare, almeno per ora e nonostante l’età, un ipotetico aldilà. E’ presto. Ma so che molti sono curiosi. E, certo, colpisce il fatto che tutti coloro che hanno avuto esperienze della morte oltrepassando anche per un solo momento la sua soglia, la raccontino in modo simile, che è poi quello a cui mi sono attenuto nella trasposizione in immagini delle sensazioni vissute in una storia che è soprattutto interessata ai rapporti ed alle commistioni. (“libera” traduzione dall’inglese di una intervista rilasciata dal regista).

Eastwood, si sa, ama visceralmente le sue creature, e questa allora ne è l’ennesima dimostrazione, e non c’è da stupirsi se  il bilancio chiude di nuovo in positivo: con la densa leggerezza che lo distingue, con la consolidata classicità della sua visione delle cose e il sentimento autentico della verità, spinge infatti pudicamente la macchina da presa oltre l’impossibile, fino agli infinitesimali gradi dell’introspezione di un mistero che è fuori dalla portata “realistica” dell’umana comprensione, e laicamente ci regala, con un piacere del “narrare” che sa commuovere e appassionare come pochissimi altri riescono ancora a fare, una delle sue opere spiritualmente più complesse, “politiche” nel senso più profondo e “puro” della parola, e soprattutto “rischiose” e originali, che ha il passo stesso dell’esistenza e la pulsante  autenticità di una vena umanistica ancora una volta indirizzata principalmente verso la piena comprensione (e riabilitazione) dei più”deboli” e vulnerabili (e qui ce ne sono davvero tanti “sotto osservazione”).

Costruito su tre episodi paralleli  e parzialmente convergenti (come vedremo alla fine) rappresentati col loro regolare alternarsi quasi “meccanico” che passa dall’una all’altra storia senza soluzione di continuità utilizzando una sequenza gerarchica di  inquadrature - a partire dalle panoramiche d’apertura nelle quale si distingue sempre un “conosciuto” soggetto architettonico “connotativo” delle differenti aree geografiche delle ambientazioni - trova il suo senso più profondo e certo, proprio nel termine inglese “hereafter” impossibile da tradurre in italiano nella sua esatta valenza originale, che unisce in sé la contemporaneità concettuale fra la vita-qui (here) e la morte-dopo (after),  il “di qua” e il “di là”, insomma, più che semplicemente “l’aldilà”. Il mistero di ciò che avviene  da quell’altra parte, infatti non è lo sfondo su cui si muovono e agiscono  i personaggi, bensì il loro principale tema di riflessione (o per meglio dire, di indagine introspettiva dentro le proprie angosce), che si  sviluppa con parecchi dubbi e pochissime certezze di partenza, fra il divagare dell’inconscio e molti continenti. Ma “hereafter”  vuol dire anche “da ora in poi”, “in avvenire”, “in seguito” e può rappresentare quindi persino l’ipotesi dell’inizio di una nuova esistenza, il “continua” dei romanzi a puntate di una volta,  o ciò che ciascuno può immaginare possa succedere dopo il conclusivo “e vissero felici e contenti”.

Questo è un film sulla perdita – è ancora Eastwood ad affermarlo - Quindi è una pellicola sulla solitudine e sulle relazioni,  più che sulla morte e l’aldilà, sebbene nasca dalle riflessioni dello sceneggiatore Peter Morgan seguite alla scomparsa di un amico. Il personaggio di Marie, una giornalista  investigativa che si espone al ridicolo quando decide di pubblicare un libro sulla sua privata esperienza dell’aldilà, credo sia stato per lui un modo per anticipare e forse esorcizzare le critiche che ci sarebbero arriva e che puntualmente ci sono poi piovute addosso. Lo script mi è piaciuto subito, appena  me l’ha sottoposto Steven Spielberg. Mi sono convinto a metterlo in scena dopo una sola lettura, e mi sono detto: “Devo assolutamente farlo, ad ogni costo”. Fortunatamente anche la Warner Bros è stata dello stesso avviso e si è potuti così passare alla fase effettiva della realizzazione.  Se ce ne fosse stato bisogno, quindi, queste parole sono una ulteriore conferma che l’opera è il risultato di una scelta ben precisa e determinata, tutt’altro che “routiniera”, cosa che si avverte implicitamente  anche dal fatto che è piena di intelligenza e ha così tanto cuore.

In tale contesto, il miracolo attivato da Eastwood risiede nell’aver illuminato di emozioni affettive questa appassionata osservazione esterna del “mistero” (non certo della sua spiegazione) con  cui il regista da novello Dickens (non si può assolutamente prescindere dal considerare lo scrittore, il suo universo poetico e il suo personale posizionamento di pensiero in questo campo, per valutare correttamente l’opera, il suo percorso creativo e il suo significato più profondo) accompagna i personaggi (e con loro anche lo spettatore) verso la conclusione del  “riconoscersi” e del “ritrovarsi”, con i costanti “ritorni” paralleli tutt’altro che casuali  e i riferimenti di presenza/assenza del racconto che spingono i tre protagonisti alla ricerca della conoscenza e di una vita migliore, anche se non esente dalle naturali sofferenze che fanno inevitabilmente  parte di ogni percorso esperienziale.

Il regista sembra partire proprio da qui per avviare la sua personale riflessione che lo porta  a interrogarsi sulle grandi questioni dell’esistenza e del destino umano, e partendo da queste, anche sul senso del “morire”.  Clint infatti, con un evidente intento conciliatore, avvicina  e mischia  magistralmente in un film che è  analitico e sintetico allo stesso tempo, ciò che sembra lontano e inconciliabile: la vita e la morte, la realtà osservata  e l’immaginazione, il dettaglio delle cose e l’insieme delle azioni compiute.

Alla fine lo spettatore viene irresistibilmente  attratto, oltre le apparenze e le possibili iniziali diffidenze, in un sottile ordito di digressioni che mettono in scena la complessità del mondo (ed è proprio nel lavorare del regista fra le  infinitesimali increspature del vivere sociale, che Eastwood diventa davvero  anche eticamente dickensiano), con il caos  che si riordina lentamente  in una cosmo sconvolto eppure misteriosamente armonico, proprio come accade ai nostri tre protagonisti, perché il senso e il progredire di questa bizzarra storia spezzata, sembra proprio che sia quello di voler ricomporre a suo modo un famiglia formata da  derelitti alla deriva che trovano finalmente uno spiraglio di felicità dopo tanto dolore (alla maniera appunto di ciò che accade nei romanzi  e nei racconti di Dickens).

Passando più direttamente dentro alle vicende, George (Damon) è un operaio di San Francisco dotato di poteri paranormali che gli consentono di comunicare con i defunti o con ciò che resta delle loro percezioni umane; Marie (de France) è invece una popolarissima giornalista Tv  di Parigi sopravvissuta  “miracolosamente” a uno tzunami (la catastrofe al servizio della narrazione tesa a mostrare, fin dalle scene iniziali, l’irrompere devastante della morte ben reso dagli eccellenti effetti speciali più “veri” della verità), e che mentre è travolta dalle onde, vive un’anomala esperienza fra la vita e la morte che la trasformerà radicalmente; Marcus  infine (F. McLaren) è un ragazzino londinese con una madre “prigioniera della droga” che assiste all’incidente fatale del gemello Jason: diversi davvero in tutto, i tre personaggi sono accomunati però dalla profonda solitudine che il confronto con la morte  ha scatenato e fatto emergere con prepotenza. Perché se George desidera condurre un’esistenza ordinaria esente dai fantasmi altrui, Marie lotta invece per tentare di spiegare al mondo che esiste una terra di mezzo fra il di qua e il di là, mentre il piccolo Marcus ha semplicemente bisogno della certezza che il fratellino scomparso sia sempre al suo fianco anche dopo morto e poter così percepire ancora intorno a sé il calore e la protezione di una famiglia.

In questo universo un po’ dissestato di emozioni,  soprattutto George sembra una figura che agisce fuori dal suo tempo (egli stesso potrebbe essere benissimo  un personaggio dickensiano, come lo sono per altro i fratellini gemelli che devono prendersi cura della madre tossicomane) e sul racconto aleggia una dimensione intensamente mitica che rende ancor più interessante la visione.

La macchina  da presa di Eastwood è dotata di un’oggettività allucinatoria che esalta  la capacità descrittiva in lui sempre così pregnante, che rende il racconto di queste vite/non-vite, davvero stimolante, un risultato che contribuisce a confermarlo fra i massimi cine-cantori del nostro tempo, bravo e convincente sia “in orizzontale” che “in verticale, si potrebbe dire (traducibile in: “qualunque cosa faccia”).

Il cinema di Eastwood è come sempre chiarissimo, pulito, senza sbavature o arzigogolamenti stilistici che impreziosiscono la forma, e questo suo essere classicamente moderno,  amplifica notevolmente il piacere della visione e della percezione.

Dialogo filosofico, diario esistenziale, racconto corale, ecco cos’è questa pellicola con il suo sotterraneo scavare nella narrazione e nelle sconfinate possibilità  che “l’atto mancate” lascia intravedere: un puzzle che si ricompone tassello dopo tassello con  tutti  che sembrano attratti come da “una calamita” verso Londra e Dickens  (Shakespeare, certo, ma Dickens…) e un bambino determinato e testardo che fornirà l’occasione per fare incontrare e “comunicare” George e Marie. E’ singolare osservare come tutti i personaggi delle tre storie parallele restino attaccati fino in fondo e quasi con disperazione, ai propri dubbi e alle proprie insicurezze, come  fossero vere e proprie ancore di salvezza, ma come anche inconsciamente avvertano che  è il destino ad orientare le loro vite e che non ci vuole nulla  a  farle scivolare da una quieta ritualità borghese nella sofferenza assoluta che può degenerare in morte, e che bisogna essere pronti ad accettare tutto, persino il dolore,  per poter poi davvero ripartire.

Il regista avvia il suo discorso da un orrore allucinato e atroce (lo tzunami che chiarisce immediatamente cosa significhi davvero vivere) certificando subito dopo, il  progressivo riaffiorare dei sentimenti ( la sofferenza del distacco, l’impossibilità  dell’addio definitivo) di tre emblematiche figure le cui esistenze sono indissolubilmente legate fra loro anche se non lo sanno, per arrivare a un finale più disteso e propositivo che molti hanno trovato troppo facile  e un tantino “accomodante” rispetto alle premesse, ma che è invece assolutamente dickensiano, e quindi giusto e conseguente (dalla cattiva alla buona fortuna, e verso il lieto fine).

Come era ampiamente prevedibile, per la sua complessità tematica e per le sue apparenti divergenze dalle storie che nelle precedenti opere il regista ci aveva raccontato,  il film soprattutto in patria – ma non solo - ha ricevuto tutt’altro che unanimi consensi dalla critica, lasciando qualche perplessità anche in un fetta non marginale di spettatori, ma come ha  accuratamente rilevato un opinionista suo connazionale, poco o niente ancora resta da dimostrare della grandezza assoluta dell’inossidabile Clint (Anna Maria Pasetti), e allora  il narratore può essere magari sembrato a qualcuno meno incisivo, ad altri più opaco e non sufficientemente problematico, ma la mano è ancora ben salda al timone della nave che anche questa volta è stata condotta in porto con assoluta competenza e una invidiabile  perfezione di manovra. Lunga vita anche artistica dunque al nostro amato Clint! E’ l’augurio che sgorga  prepotente dal mio cuore.

Ottimo come sempre il parterre degli attori, a partire da Damon “voluto” ad ogni costo, che conferma la fiducia, regalandoci un George scolpito a tutto tondo con assoluta umiltà e totale partecipazione emotiva. Gli sono a fianco, tutti perfetti nelle loro performances, Cécile de France, i gemellini George e Frankie McLaren, l’intensa Bryce Dallas Howard, Jay Moher e un davvero graditissimo ritorno, quello di Marthe Keller (la Dottoressa Rousseau). Il grande Derek Jacobi nel ruolo di se stesso, ci regala una appassionata e appassionante lettura  dei brani del grande Dickens (vera musica per le nostre orecchie).

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