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Vallanzasca. Gli angeli del male

Regia di Michele Placido vedi scheda film

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La recensione su Vallanzasca. Gli angeli del male

di Spaggy
8 stelle

È ora di smetterla con il puntare il dito contro Michele Placido e la sua ultima opera. Con buona pace degli amanti delle polemiche o di chi vorrebbe zittire una voce spesso fastidiosa perché realista, il regista ci presenta un’opera che si imprime per forza stilistica: “Vallanzasca” è, prima di essere una biografia filmata di uno dei più efferati criminali d’Italia, un film di genere che da tanti anni forse mancava in Italia. Il genere è il poliziesco (anche se qualche tentazione lo porta verso le linee del polar francese), in voga negli Anni Settanta e che vedeva come maggiori esponenti Di Leo o il miglior Damiani, genere in cui il regista si è fatto le ossa anche grazie alle quattro fortunatissime edizioni della serie televisiva “La piovra” (non a caso diretta proprio da Damiani). Il paradosso è che negli Anni Settanta pur vivendo una stagione di terrore non si sollevavano i vespai di oggi.
 


Stupisce, infatti, chi addita Placido come il santificatore della figura criminale di Vallanzasca, esponente della mala milanese che seminò panico e sangue a suon di rapine, sequestri e efferati omicidi ma che prima di ogni altro seppe sfruttare i mass media a proprio vantaggio, divenendo una sorta di icona, un sex symbol, capace di permettersi il lusso di criticare il sistema giudiziario italiano, di raggirare le forze dell’ordine per rilasciare un’intervista esclusiva ad una radio e di attirarsi le simpatie delle donne d’Italia, tanto da ritrovarsi sui quotidiani e le riviste dell’epoca con l’appellativo del “bel René”.
 


Sin da allora avrebbero dovuto chiedersi il perché di tanta fascinazione o, magari andando a ritroso nel tempo, chiedersi del perché il Male attiri sempre più le nostre attenzioni, facendoci propendere all’ammirazione per Iago piuttosto che a quella per Otello. Oppure chiedersi perché Dante sia più affascinato dalla descrizione dettagliata dell’Inferno piuttosto che per quella a tratti sommaria del Paradiso. O ancora perché nella religione o nella mitologia classica Caino prevalga su Abele o Romolo su Remo.
 


Ci sarebbe da chiedersi perché tante polemiche non siano state sollevate nel momento in cui Placido abbia descritto le malefatte della banda della Magliana oppure nel momento in cui come attore abbia interpretato il boss Provenzano per una fiction televisiva. Forse Roma e Palermo non hanno ugual dignità di Milano di fronte allo spettatore italiano? Le forze dell’ordine che prestano mezzi, personale e set per prodotti come il “Capo dei capi”, incentrato su Totò Riina, sono credibili quando manifestano contro il film di Placido?
 


Polemiche e dietrologie a parte, quello che ne viene fuori è un’opera ossimorica sin dal sottotitolo, “Gli angeli del male”, in cui si accosta il bene al male e in cui si pone l’accento sul tono che avrà il film, in cui non si prenderà nessuna posizione e nessun giudizio morale sarà esternato. Si susseguono solo descrizioni di fatti nella loro più efferata crudeltà, con un personaggio sempre in bilico tra l’essere e l’apparire, destinato a scelte spesso “involontarie”, dettate dalla contingenza di certe situazioni estreme o dalla voglia di porre “rimedio” ad errori propri o altrui.
 


Placido, partendo dall’autobiografia dello stesso Vallanzasca (“Il fiore del male”), pone le attenzioni maggiori sul singolo personaggio, lasciando in secondo piano gli altri elementi della “banda della Comasina”, tracciandone un identikit perfetto, sospeso tra umane debolezze e megalomanie. Non stupisce che il bel René agisca spesso per effetto, conseguentemente a provocazioni esterne (attacca ad esempio una guardia in carcere dopo che gli era stato servito un pranzo condito da uno scarafaggio o si provoca una violenta infezione ingerendo dei chiodi arrugginiti solo per evadere) o errori arbitrari degli amici (e la sua filosofia iniziale sull’uso delle armi la dice lunga sul come il suo comportamento si sia evoluto in seguito ai comportamenti maldestri degli altri membri della banda). Così come non stupisce che gran parte delle sue azioni siano dettate dalla sua voglia di sfidare il sistema, come nell’evasione dal traghetto che avrebbe dovuto condurlo all’Asinara o nella scelta di concedere un’intervista esclusiva a Radio Popolare nonostante sia ricercato o nell’interessante interrogatorio/scontro in tribunale in cui “si permette” di criticare il sistema giudiziario italiano (critica di scottante attualità).
 


Forse Placido paga lo scotto di aver descritto i fatti così come si sono susseguiti, senza romanzarli o senza esaltare le virtù di chi lo insegue o arresta, lasciando spesso commenti ironici sulle diverse modalità di azione di polizia e carabinieri, o senza tralasciare gli influssi negativi derivanti dall’aver descritto anche lo scenario affettivo dell’uomo: il suo rapporto di amore/odio con le donne, il suo attaccamento al figlio avuto dalla prima compagna Consuelo, la sua ala di protezione nei confronti dei genitori. E ci si stupisce che ciò provochi clamore: si dimentica forse che il concetto di famiglia sia radicato nelle menti degli esponenti della criminalità? Ci si stupisce che ci sia del “buono” anche nel marcio? Ci si stupisce che al di là di un aspetto pericolosamente pubblico ne esista anche uno privato? Ironicamente il film non è piaciuto neanche a Vallanzasca che non si rivede nel lato umano descritto.
 


Ma non dimentichiamo che siamo di fronte ad un film, con tutti i rischi o benefici che ciò comporta. Fermiamoci alla realizzazione e alla riuscita, tralasciamo il soggetto e non ricerchiamo spiegazioni inesistenti, non scrutiamo fantasmi e ombre che non esistono.
 


La regia di Placido è ritmata, segue il percorso degli eventi alternando campi medio-lunghi a primi piani che spesso fanno abbassare gli occhi, come se si sentisse tutta la fierezza dello sguardo di Vallanzasca, come se si volesse nascondere la testa di fronte a tanta efferatezza. La macchina da presa spesso diventa coprotagonista della scena, soprattutto nelle riprese a mano, fornendoci contemporaneamente due differenti sguardi, alternando immagini e visioni: siamo proiettati ora nella mente del criminale, ora nella mente di lucidi spettatori pronti a delinearsi un quadro generale che non tralascia alcun elemento.
 


La forza della regia è avallata da una fotografia superiore allo standard medio italiano e da una ricostruzione storica dettagliata che ha portato all’utilizzo anche di elementi scenici del periodo, dai costumi alle macchine, con un’accuratezza quasi maniacale e senza sbavature di alcun tipo. Si rifuggono gli eccessi e tutto sembra normale, l’artificiosità lascia il passo al realismo.
 


Il ruolo degli attori principali conferisce al film un aspetto ancora più impressionante per via della loro origine teatrale, disegnando i personaggi con quell’alone di veridicità e credibilità che spesso manca alle nostre biografie. Strabiliante è Kim Rossi Stuart, a suo agio nei panni del criminale nonostante il suo eterno aspetto da bravo ragazzo: lo sguardo violento diventa un’arma ancora peggiore delle pistole e dei mitra che ritrova a maneggiare, l’accento milanese che colora la sua leggera inflessione romana diventa ancora più odioso del personaggio stesso e la somiglianza fisica con il vero Vallanzasca confonde, il ghigno è lo stesso, i movimenti delle mani e la postura sembrano tratti da immagini di repertorio.
 


Filippo Timi, nei panni dell’eroinomane amico/traditore di Vallanzasca, merita plausi ancora maggiori di quelli suscitati dal suo già incredibile Mussolini di “Vincere”: altro ruolo diviso tra pazzia, dipendenza e difficile caratterizzazione psicologica. Il giovane Francesco Scianna, una delle poche note positive di “Baaria”, dimostra di trovarsi a suo agio nelle mani di un regista sapiente. Corre il rischio nei panni di Turatello di cadere nella facile delineazione del mafioso di origine siciliana ma riesce ad imprimere al suo personaggio una recitazione per sottrazione favorita anche dai suoi tratti fisici mediterranei che gli fanno calzare a pennello il ruolo, soprattutto nelle scene di ambientazione carceraria.
 


Quasi di contorno i ruoli femminili dove spiccano Valeria Solarino e un’irriconoscibile Paz Vega, in un ruolo determinante per tutta la vicenda raccontata.
 


Un film perfetto, destinato a mio parere a far parlare ancora molto di sé soprattutto grazie alla distribuzione dell’americana Fox che lo ha già venduto in mezzo mondo e che lo porterà nei cinema Usa a breve. Parlare di Oscar con un anno di anticipo sarebbe prematuro ma la scelta di Placido di osare, di mettere mano ad un soggetto scomodo avendo come stimolo i modelli europei francesi (il Mesrine di Cassel echeggia in più punti) e tedeschi fa ben sperare proprio per averne fatto un film d'altri tempi.









Commenti, approfondimenti ed extra su: http://cinerepublic.film.tv.it/vallanzasca-gli-angeli-del-male-recensione-di-s/1985/

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