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Noi credevamo

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Noi credevamo

di yume
8 stelle

Martone s’immerge in un trentennio dell’ ‘800 italiano, il più convulso e problematico, fonte di innumerevoli analisi, controversie, agiografie e revisioni, il tempo del “Qui si fa l’Italia o si muore”, e si chiede quale Italia sia stata fatta.

 

E’ evidente che riprendere oggi un simile argomento non può essere  frutto di esclusivo interesse documentario per una ricostruzione storica, la prospettiva è sufficientemente ampia e distante per permettere una di quelle incursioni nel passato che tanto bene aiutano a capire il presente.

Il pretesto narrativo è fornito dal romanzo di Anna Banti, liberamente ridotto nel plot ma ben presente nello spirito che anima lo sviluppo dei quattro tempi del racconto, La scelta, Domenico, Angelo e L’alba della nuova era.

Ai protagonisti, tre amici di un piccolo paese del Sud, Angelo, Domenico e Salvatore, coinvolti nel progetto rivoluzionario della Giovane Italia di Mazzini, si affiancano personaggi con nomi noti (Crispi, lo stesso Mazzini, Callenga, Poerio, Felice Orsini, la principessa Cristina di Belgioioso) o figure di fantasia, in una fusione di realtà e finzione difficile da reggere con equilibrio sempre perfetto, ed infatti è questo il limite del film, peraltro di buon respiro epico e cura formale.

 

 

Nell’ affollarsi degli eventi e nello sforzo necessario per conciliare il dato storico, la sua lettura e interpretazione con l’elaborazione fantastica di pertinenza dell’opera d’arte, alcuni snodi nella vicenda e passaggi temporali risultano oscuri, ardui da mettere a fuoco ogni volta, si verificano spesso momentanei black out comunicativi .

In genere sono i personaggi storici quelli meno riusciti, Crispi, Orsini e la Belgioioso hanno un che di meccanico, di irrisolto, quasi  una presenza posticcia, Mazzini interpretato da Servillo resta sullo sfondo molto defilato, Garibaldi è un’ombra a cavallo sulla vetta del colle di notte in una scena suggestiva, ma un po’ troppo, si sfiora il melodramma.

Certo la scelta di  prediligere i volti anonimi, mettendo in scena più la tipologia umana che il personaggio in cui questa si è incarnata è valida e importante quando l’intento è  di rintracciare nel passato le radici dei mali del presente, e bene dunque che i patrioti siano anonimi, i nobili e gli intellettuali siano quella pletora parolaia che perfino nelle segrete borboniche preferisce restar separata dal popolo, sulla cui testa far passare un progetto di realizzazione della nazione calato dall’alto e a prezzo di violenze notevoli.

Resta il dubbio che una lettura così fatta non rechi ancora tracce di quella interpretazione del Risorgimento a cui tanto male fece la fanfara di vent’anni di Fascismo.

Se mali ce ne furono, e ce ne furono molti, certo nessuno nei tempi successivi li ha sanati e continua a non esistere nella coscienza collettiva quel senso di nazione che, al contrario, altri paesi europei hanno maturato molto bene, e le conseguenze sono tutte davanti ai nostri occhi.

Quello che parte della critica definisce “sopraffino lavoro in sede di sceneggiatura… molti dialoghi riportano pensieri e discorsi dei personaggi esistiti, recuperati e conservati nella forma del linguaggio ottocentesco per preservarne la spontaneità ”, lavoro certo accurato che dà notevoli meriti sul piano documentario a De Cataldo e Martone sceneggiatori, in realtà frena la totale adesione dello spettatore ad un’opera che ha comunque  evidenti pregi.

Si resta disorientati, si fatica non poco a seguire i fili della narrazione e ci sono alcuni vuoti.

Su altri piani di analisi il film è egregio, la scenografia perfetta nella ricostruzione ambientale (anche i pali in cemento armato che ci rigettano al presente con intento provocatorio sono giocati al momento giusto), la fotografia è magnifica, l' ’’800 pittorico è tutto davanti ai nostri occhi, da Fattori a Segantini e ai Macchiaioli, passando per Manet, il cui Déjeuner sur l’herbe manca solo del nudo femminile al centro nel quadro in cui passa Felice Orsini che medita attentati sulla riva della Senna.

Lo Cascio dà un’ottima prova nella parte di Domenico, il sopravvissuto, fil rouge  della lunga storia, in cui entra nella fase della maturità, quando stanno sfumando una alla volta tutte le idealità giovanili e gli intrecci della politica con gli intrighi che ne fanno parte segnano tappe dolorose,  lungo le quali la fatica più titanica è mantenere la giusta distanza e l’equilibrio.

Domenico riesce fino all’ultimo a sentirsi vivo e partecipe, e la bravura di Lo Cascio è far percepire quanto questo sia difficile.

 

Le tare ataviche di  quel volgo disperso che nome non ha, ben focalizzato da Manzoni quando ancora tutto doveva accadere, ci sono tutte in un film che registra quello che poi è stato, e quel Parlamento vuoto sul finale,  con Crispi che parla stentoreo a scranni vuoti, è un’allegoria troppo triste nella sua capacità evocativa.

L’Orchestra della Rai nell'Auditorium di Torino. diretta da Roberto Abbado ha inciso una colonna sonora ricca, raffinata nelle scelte dal repertorio orchestrale ottocentesco, con brani d’opera al di fuori delle piste battute di solito, Martone ha voluto una direzione originale, che esprimesse con assoluta adesione lo spirito delle singole scene. Il risultato è eccellente, certo una delle parti migliori del film.

 

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