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Venere nera

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su Venere nera

di EightAndHalf
7 stelle

Pluralità del guardare e del suo senso.

 

 

Partiamo dall'utopia: immaginiamo un film non costruito. Un qualcosa di spontaneo, che nasce in itinere, si forma in maniera automatica. Difficile avere un capolavoro. Dunque più realisticamente parlando quello che può fare un film è nascondere i propri artifici. E Kechiche in questo senso si è sempre rivelato un grande maestro, abituandoci alle immediatezze de L'esquivé e, diversamente da quanto i detrattori sostengano, de La vie d'Adèle. Forse semplicemente perché in questi film mancava una storia, il cosiddetto "inizio" e la cosiddetta "fine" nascevano da un discorso molto più astratto e complesso, e non dalla disposizione narrativa regolare di una "storia". Anche La grain et le mulet può essere considerato in questo modo, in linea di massima: anche se lì si avvertiva già la voglia di mettere un "finale", dopotutto, che desse un senso alle cose. Ecco, invece, che in Venus Noire, la costruzione si mostra. Già il fatto stesso che Kechiche voglia fare una ricostruzione "storica" ci mette un campanello d'allarme; che poi voglia raccontare in maniera lineare e relativamente normale una storia, con grave rischio di essere "a tesi" (ma mai programmatico, né didascalico), ecco, questo ha dato fastidio a molti amanti de L'esquivé. Certo, forse Kechiche ci ha viziato (e forse ci vizierà). Ma pur mantenendo ferma l'idea di una regia mossa adesa al reale (e in Venus Noire come in La vie d'Adèle vicina agli umori e agli odori dei corpi), proprio in Venus Noire ha deciso di narrare una storia, con qualche divagazione, ma sempre serrata, coinvolgente nel senso più classico, e, proprio per questo, ancora più disturbante. Un film "costruito", che ha come solo difetto quello di non saper dissimulare, soprattutto nella prima parte, proprio il lavoro che si è fatto alla base, sullo script, sulla messa in scena. Ma se non parlassimo di Kechiche, non sarebbe neanche un difetto.

 

 

1810-1815: nell'arco di cinque anni si segue (o si insegue, parlando di Kechiche) la vita di Saartjie, sud africana "ottentotta" impegnata in un lavoro assai disdicevole, ovvero fare il fenomeno da baraccone su misura per uno spettacolo che abbia come mira quella di far esibire in pubblico una "Venere Ottentotta", dalle forme fisiche assai insolite ma semplicemente caratteristiche di un certo tipo di popolazione del Sud Africa. Insomma, una "Elephant Man" o un "Eyeball Kid" di inizio XIX secolo. Caratteristica che poi sarà sempre più "celebrata" del corpo di Saartjie, in seguito, durante la discesa negli inferi della carne che è Venus Noire, sarà proprio il suo organo genitale, grande e particolarissimo. La storia è tutta qui, con in più un'analisi attenta del rapporto fra lei e il suo "padrone/datore di lavoro", e la graduale degenerazione della sua condizione, per la quale verrà affidata a un altro padrone (un mezzo decerebrato Olivier Gourmet) e poi diverrà prostituta, oltre a oggetto di interesse di molti scienziati attratti dalle di lei particolarità fisiche. Inutile dire che anche coloro che la osservano sono corpi che si dimenticano, nell'astrazione del guardare, di esserlo.

 

 

Elemento che salta immediatamente all'occhio è la strana condizione sociale di Saartjie: evidentemente schiava, teoricamente libera, ovvero dotata di un salario e tutelata (si fa per dire) da personali interessi, di guadagno sufficiente per poter tornare nella propria patria, per poter partorire un figlio che desidera, nel triste ricordo di quello che ha perduto. Questo, evidentemente, a costo di una messa in gioco totale e pericolosa della propria dignità fisica (durante lo spettacolo viene costretta - e costringe se stessa - a interpretare una donna africana selvaggia e si deve prestare a farsi toccare il deretano dagli spettatori per compiacere la loro curiosità). Una situazione paradossale che appesantisce profondamente l'animo sincero ma pericolosamente masochistico di Saartjie, che preferirà mantenere la sua condizione di "libera e volontaria schiavitù" durante un processo nel quale i componenti di un'associazione, l'"African Institution", accusano il suo padrone di trattarla davvero come schiava, ricevendo come risposta sia il dissenso del padrone stesso, sia quello della testimonianza di Saartjie, che dirà che sul palco lei "recita", cosa che fa chiaramente.

 

Già da qui si capisce che il film di Kechiche non è un semplice "raccatta-consensi", ma vuole richiamare al problema dello sfruttamento umano umanizzando un personaggio, quello di Saartjie, che non assumerà mai un carattere eroico, ma di vittima trasversale di altri e di se stessa, una figura straordinariamente debole e fragile, che priva chiunque (anche lo spettatore) di un sorriso. In particolare, mettendo in bocca a Saartjie un discorso per cui lei sul palco si limita a recitare, e lo fa per sua propria volontà, Kechiche getta sul campo, a un'ora di film, un elemento che si ricollega in maniera definitiva alla presunta evidente "costruzione" di Venus Noire, che per molti consisterebbe anche in una mancanza di sincerità: l'idea che ci si voglia approcciare a Saartjie, più che come personaggio, come corpo, sfruttato e deciso autonomamente (costretto per cause di forza maggiore, ma incapace di combattere) a lasciarsi andare alla propria dissoluzione. Un corpo che Saartjie, nel tentativo di affrontare la sua vita, riempie di alcool e di fumo, come se fosse implicitamente alla ricerca della sua stessa morte in alternativa alla vita che conduce, una morte che non ha però il coraggio di procurarsi da sola. Un corpo che secondo gli scienziati, nell'incipit del film (che si svilupperà in un lungo flashback), è di natura fatto per servire, a causa di alcune forme che lo rendono più vicino alle caratteristiche fisiche (e quindi, non si sa come, intellettive) delle scimmie.

 

 

Dunque Saartjie è un corpo, in Venus Noire, e più che dispiacersi per lei, bisogna guardarla, osservarla, come si addice a ciò che è fisico: bisogna toccarla (e Kechiche finisce davvero per farcela toccare), con il presupposto però di sapere "perché" la stiamo guardando. E qui entra in gioco un elemento fondamentale, nella lettura critica di Venus Noire. Saartjie si sottomette a una serie di situazioni in cui viene osservata o toccata, sia per essere denigrata, sia per essere analizzata. Mai, chiaramente, per essere amata: anzi, quando ciò successe (prima, cronologicamente, degli eventi narrati), ebbe come conseguenza la morte del figlio e la fuga del fidanzato. Ma non siamo forse anche noi spettatori a osservarla, mentre lei, in uno stato di crescente alienazione (viene ora, nel 2014, in mente l'accettazione rassegnata di Solomon Northup in 12 Years a Slave), lei si lascia andare, si svende, ormai senza più un motivo? Sì, la osserviamo anche noi, ma perché?

 

 

Così come spetta ai personaggi del film, spetta a noi: Kechiche ci fa osservare tutte le dimensioni, tutti i momenti del reale, ma non si pone in termini ricattatori, anzi, in certi momenti si sofferma su particolari più scabrosi, mettendoci più dal punto di vista del pubblico degli spettacoli piuttosto che dal punto di vista di Saartjie, punto di vista che pure straripa, esplode, viene fuori autonomamente, ma molti fanno finta di non vedere. Quello che Kechiche fa in Venus Noire, e che ha bisogno necessariamente di una "costruzione", è proprio parlare dell'atto del guardare, e di cose c'è dietro a simile attività. Così ci allontaniamo dallo scorrere autonomo dell'esistenza, quello de L'esquivé e quello del successivo, amato ma anche odiato, La vie d'Adèle (in cui però Kechiche fa un compromesso, simula e dissimula, anche lì giocando con il guardare, e solo dopo Venus Noire questo si può capire bene), e ci avviciniamo più a una "tesi", per così dire, che è anche fortemente ambigua e attenta a raccontare un tema delicato in maniera problematica e, comunque, coinvolgente, anche più di quanto potesse essere tutta la prima parte di La grain et le mulet.

 

 

Venus Noire è dunque un film ingiustamente maltrattato, forse confuso per un gioco compiaciuto, per una solita accusa contro la schiavitù, per un film troppo costruito. Ma se anche questo ultimo aspetto può essere vero (e rende un po' pretestuose certe modalità di ripresa), al contempo è anche vero che dietro si nasconde una vera sincerità, non una semplice intenzione, ma un tentativo di legare il tema dello sguardo a quello del corpo (e del prezzo, alla fin fine, di entrambi), finendo per elaborare, implicitamente, metacinema. E Kechiche va comunque apprezzato per il suo coraggio, per aver cambiato rotta, ma per essere rimasto fedele a certi suoi stilemi che lo rendono ancora un autore più che interessante, oltre che creatore di un film che può dirsi un vero capolavoro contemporaneo, La vie d'Adèle.

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