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Venere nera

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su Venere nera

di OGM
6 stelle

Prolissità d’autore. Abdellatif Kechiche non è nuovo alla tentazione di abbandonare la storia a se stessa, lasciando che si racconti da sola, con i suoi ritmi, i suoi tempi morti, le sue ripetizioni. Ma ciò che può essere accettabile per la cronaca del presente, in cui l’astensione del regista si giustifica con la volontà di mantenere uno sguardo distaccato ed obiettivo su una realtà ancora in evoluzione, risulta innaturale se applicato ad una vicenda storica di due secoli fa, ricostruita per mezzo di documenti scritti, e quindi incapace di parlarci con voce diretta, attraverso i momenti di vita vissuta. La protagonista del film è Saartjie Baartman, una donna sudafricana di etnia Khoikhoi approdata in Europa nel 1815, al seguito di Hendrick Caezar, il colono olandese presso cui, a Città del Capo, lavorava come domestica.  L’uomo la esibisce in uno spettacolo itinerante, in cui la costringe a interpretare la parte della selvaggia, tenendola al guinzaglio, e facendola uscire da una gabbia. Le sue particolari caratteristiche fisiche – tra cui la famosa steatopigia delle donne della sua tribù – attirano non solo la morbosa curiosità di uomini e donne di tutti i ceti sociali, ma anche l’attenzione degli scienziati dell’epoca, primo fra tutti il dottor Georges Cuvier, celebre studioso di anatomia comparata, nonché fondatore di una discutibile teoria sulle razze umane. Lo scopo di Kechiche è fornirci un minuzioso resoconto delle fasi di un’umiliazione: quella che vede la Venere Ottentotta nei ruoli di fenomeno da baraccone, scherzo della natura, feticcio sessuale, e che ostinatamente le nega la sua dignità di donna. Il percorso che, dal palcoscenico della fiera, la porta verso la prostituzione, la miseria, la malattia, è la lenta e inesorabile deriva che attende chi è totalmente privo di voce, di risorse, di diritti ed esiste apparentemente solo per essere comprato, sfruttato, venduto. Di fronte a questa degradante tragedia umana, Kechiche preferisce confinare lo spettatore nel ruolo del mero osservatore, che assiste allo squallore e scorge  le lacrime  che esso causa nella protagonista, ma non è messo in condizione di immedesimarsi in quest’ultima e partecipare emotivamente al dramma. La povera Saartje rimane, così, un semplice oggetto da esposizione: per noi non è più il pupazzo che suscita scandalo e stupore a causa della forma del suo corpo,  però, in compenso, diventa il bambolotto che fa tenerezza per il suo essere muto e indifeso di fronte alla crudeltà dell’uomo. Non diversamente dal proprietario di  un ottocentesco museo delle meraviglie,  Kechiche ha tanta voglia di fare sensazione, di mostrare al pubblico i macabri dettagli di una storia d’altri tempi, ma non si impegna a commentarli, a dotarli di un contesto e di un pensiero che li riscattino dall’ignobile rango del freak show.  

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