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The Social Network

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su The Social Network

di lussemburgo
8 stelle

Nei suoi film più recenti David Fincher sembra aver messo a tacere la consueta verve registica, aver scelto uno stile più trasparente e consono alle sceneggiature messe in scena. Anche in The Social Network, la regia pare mettersi a disposizione della briosa verbosità di Aaron Sorkin per illustrare la nascita di “Facebook” e le conseguenti vicissitudini del suo fondatore, Mark Zuckerberg. Ma la morigerata condotta del regista è soltanto fittizia e il film cela la sapienza digitale delle immagini con inquadrature impossibili, artefatti aggiunti, sorprese visive. La normalità delle riprese è frutto di uno studio sull’apparenza ingannevole, sulla mistificazione impercettibile che invade il cinema contemporaneo e che Fincher palesa complicando la superficie del visibile, di pari passo alla complessa fluidità delle parole della sceneggiatura.

Svolta in esterni notturni, in ambienti chiusi dalle prospettive aperte soltanto dietro al paravento di una finestra o di uno scorcio limitato, The Social Network è un huis-clos mentale, una disamina impietosa del moralismo interiore. Zuckerberg esautora amici e collaboratori per ripicca, forse inconsapevole, agisce d’impulso e talvolta per calcolo mentre gli altri rispondono adendo alle consuete e impersonali vie legali nel tentativo di stabilire una verità che sia conforme ai propri interessi e desideri. Il mondo interiore di tutti i personaggi è mosso dal morboso bisogno di riconoscimento, certo soprattutto economico, inscritto all’interno della gerarchia sociale che si manifesta nell’appartenenza all’élite, universitaria, finanziaria. Zuckerberg si auto-illude di democratizzare la rete mentre è soltanto assetato d’affetto e di ordine, agisce con la violenta imposizione delle proprie regole, di un punto di vista a cui vuole convertire sommessamente l’universo.

Tra le esposizioni dei contrasti, gli episodi significativi e i flash-back miscelati, il film procede con una cronologia imperfetta, tentata dai salti indietro e dai passi in avanti, come una pagina in rete in costante aggiornamento. Si staglia all’interno di tanta interiorità, sia fisica che mentale, la scena graficamente centrale della gara di canottaggio, costruita da primi piani e da campi lunghi, priva di dialogo e commentata sardonicamente dalla sola musica. Prolungata sosta tra le tante parole di Sorkin e il rapido eloquio degli attori, la scena lascia al film il tempo di riprendere fiato in un’esibizione di tecnica e regia, un vistoso omaggio alla geometria sarcastica di Kubrick che sembra includere in sé la sfida cinematografica del film: rendere interessante la competizione, indipendentemente dal suo contesto e indifferentemente dai personaggi.

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