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Il cigno nero

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su Il cigno nero

di spopola
8 stelle

“Le pellicole che hanno influenzato questo film sono molte, da Scarpette rosse a La mosca di David Cronenberg, solo per citarne alcune. E indubbiamente ho pensato anche a Eva contro Eva quando dirigevo Black Swan. Era quasi inevitabile. Alla fine,  però, è come se avessi messo tutto in uno shaker agitando a lungo:  quello che è venuto fuori è sicuramente qualcosa di molto differente, e degli ingredienti originali, c’è rimasto solo poco più di una traccia, una vaga rimembranza. (...) Tutto è partito dalla danza, dal desiderio di trasformare un balletto come Il lago dei cigni in un film che raccontasse la psicologia e il dramma. Ha preso corpo dall’idea della sua protagonista, mezza donna e mezza cigno, portata sullo schermo da una Natalie Portman a sua volta trasfigurata in una creatura unica, decisamente strana e insolita. (…) Il mio punto di riferimento per lo sviluppo della storia  è stato Il sosia,  il racconto di Dostoevskj in cui un uomo si sveglia e trova seduto il proprio doppio a guardarlo. Andando a vedere a teatro Il lago dei cigni mi sono reso conto che anche questo balletto affrontava il tema del dualismo tra due personalità opposte, come il cigno bianco e il cigno nero… ci ho trovato insomma molte affinità (…) So che il finale assomiglia molto a quello di The Wrestler, me lo hanno fatto rilevare in molti. Ne sono consapevole e persino intrigato. Mi divertiva l’idea che uno sport rude e una forma d’arte purissima fossero accomunati da una scena in cui si definisce la storia nel suo complesso, con qualche debita differenza ovviamente, e non a caso la figura di Nina ha preso corpo proprio con quella pellicola: inizialmente la donna che si innamora di Randy in The Wrestler doveva essere una ballerina classica, e solo in un secondo tempo è diventata una lap dancer perché risultava più adatta all’ambiente del protagonista e non volevo mettere troppa carne al fuoco. Ho tenuto però in caldo il personaggio per questo successivo lavoro, ma il legame con il precedente è fortissimo. Entrambe infatti sono due pellicole che parlano del corpo e della psiche umana, rappresentano una specie di dittico, raccontano tutte e due una storia di atleti che si esibiscono davanti a un pubblico, così come ambedue i protagonisti usano il proprio corpo per spingersi verso l’estremo. (Darren Arnofsky)  

Come potrebbe essere sintetizzata questa ultima personalissima fatica di Darren Arnofsky che più che a Tchaikovsky fa pensare a un (im)possibile incrocio fra gli incubi di Kafka e quelli di Poe? Probabilmente come il viaggio più  allucinato che allucinante, dentro e intorno alla psiche di una personalità fortemente turbata (o per meglio dire,  “disturbata”), ossessionata dall’ansia divoratrice del successo. Una favola nerissima dunque che trasforma prove e messa in scena del più classico dei balletti in un masochistico viaggio all’inferno intriso  di sangue, violenza e sesso, ma al tempo stesso, anche una storia metaforica densa di assonanze psicanalitiche zeppa di visioni, incubi, manie, sogni premonitori, autoflagellazioni e senso di castrazione, segnata da una forma di esaltazione schizofrenica davvero devastante per la forza distruttiva e inquietante che si porta dietro, e che si esplicita proprio attraverso l’ambiguità tematica del “doppio”. Il regista  questa volta è stato davvero straordinario nel costruire un cinema fatto di riflessi e di specchi in cui i personaggi trovano nei chiusi recessi della mente oltre che nelle figure e negli ambienti che li circondano, fonte e nutrimento per le proprie nevrotiche ossessioni (un territorio  dove forse Polanski rimane un maestro ancora insuperato con i suoi Repulsione, Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano, ma nel quale si colloca adesso con assoluta autorevolezza anche “questo”Arnofsky).
Tutte le figure sono tratteggiate con le tinte forti del melò, ma ricorrendo spesso a calibrati effetti speciali di grande impatto  che corrispondono a precise scelte anche  formali che riguardano i costumi, le luci e soprattutto le angolazioni e i ritmi delle riprese, movimenti della macchina da presa inclusi, tutti elementi intelligentemente utilizzati insieme alla bellissima colonna sonora, per accentuare i contrasti drammatici delle situazioni, privilegiando una tavolozza primaria di colori giocata soprattutto sui contrasti  fra il bianco e il nero, ma con molto “rosa” dentro (che è poi la nuance che assume un valore fortemente emblematico proprio rispetto allo svolgimento delle azioni del racconto).
Il percorso è volutamente ambiguo, visionario e persecutorio, ma il regista non bluffa mai e soprattutto non camuffa le carte in tavola. Riguardandolo un po’ al rallentatore come si riesce a fare con il DVD, ci si accorge infatti che non ci sono sconvolgenti scoperte conclusive, perché tutto ci era stato chiaramente anticipato, perfettamente esplicitato in brevissimi passaggi quasi subliminali che non potevano che far diventare certezza, molto prima che si concretizzasse la tragedia, i dubbi che stavano prendendo forma via via che procedeva la visione.
Il ritratto a tutto tondo che ci viene offerto,  è quello di Nina, ballerina di una compagnia newyorkese alle prese con i provini per una parte di quelle che possono veramente segnare una svolta nella carriera e una clamorosa, definitiva affermazione da indiscussa étoile: quello della protagonista, nel duplice ruolo del Cigno bianco e del Cigno nero (il Bene e il Male, la Grazia e la Seduzione, la Luce e l’Ombra) di una nuova edizione del Lago dei cigni da mettere in scena dopo che è stata definitivamente detronizzata la vecchia star ormai in  declino per il passare inesorabile degli anni.
L’arrogante direttore della compagnia  fa notare subito alla ragazza che aspira al ruolo (ma il “messaggio” arriva prepotente anche agli spettatori) come lei sia certamente un prodigio di tecnica e di appropriate movenze, “perfetta”  dunque per il Cigno bianco con la sua inappuntabile eleganza, ma priva totalmente della sfrontatezza, della sensualità, dell’ambiguità e dell’arte della seduzione necessarie invece per una compiuta definizione contrapposta del suo “doppio” nero, e per questo la stimola – se vuole ottenere la parte - ad oltrepassare i propri limiti (e persino i suoi evidenti tabù sessuali) sul palcoscenico come nella vita, pigiando il pedale, per far scattare in lei la voglia di far uscire fuori il lato oscuro e il desiderio carnale ed indurla finalmente ad “osare”,  sulla già elevata competizione che esiste fra le aspiranti danzatrici.
Quanto alla vita  privata, c’è davvero di che lavorare, perché qui è veramente un dramma, e i sintomi del suo malessere interiore, dell’irrisolto che c’è in lei, sono da subito evidenti come le radici da cui sono germogliati: Nina vive con la madre (e della madre è succube), frustrata ex ballerina di fila (ora pittrice di quadri un po’ inquietanti) che ha dovuto rinunciare al “sogno” della scena e della celebrità proprio a causa della nascita della ragazza, della cui carriera, si occupa prioritariamente con il piglio di una implacabile Walkiria anche per ripagarsi delle proprie delusioni (e che avrà un ruolo tutt’altro che secondario nella paranoica dissociazione mentale della figlia che raggiungerà effetti quasi horror, nelle travolgenti, paranoiche sequenze del finale).
Moltissimi sono i “simboli” ed i segnali che accompagnano e definiscono la figura di Nina nel suo rapporto con il mondo che la circonda, e soprattutto con la madre, il ballo e la carriera: i gioielli  falsi (gli orecchini), i trucchi (soprattutto il rossetto rubato alla star in declino), gli abiti e le scarpette, tutti indici di una costruzione identitaria al femminile, mediata dalla riduzione del corpo alle pure apparenze; ma anche ‘oggetti feriti’, sottoposti a una dura manodopera fatta di coltelli, forbici, strappi, lacerazioni, taglie costrittive. (Tommaso Mozzati su “Segno Cinema”)
Il film deve molto alla prova maiuscola di una Natalie Portman di straordinaria  efficacia, perfettamente a suo agio  anche sulle punte, impegnata in una estenuante lotta  da una parte con la madre divoratrice (a fornirle sfumature inquietanti e adeguati  tratti un pò luciferini, ci pensa una Barbara Hershey eccellente come al solito) e dall’altra  con la collega Lily, con la quale è in forte competizione (l’altrettanto bravissima Mila Kunis) che cerca di farle vivere esperienze diverse (ma anche di soffiarle la parte). Una “battaglia” che si protrae e si estende fino alla sera della prima, atto dopo atto, come in un incubo vissuto in un climax emotivo fortemente ansiogeno, finalizzato a conseguire i risultati auspicati dal regista fra  pungoli, provocazioni e momentanee ritirate, perché alla fine, proprio di  questo si tratta, di convogliare tutte le energie mentali per arrivare a superare la prova, costi quel che costi (ed è un percorso estenuante anche per il pubblico che non può restarne fuori).
Quello che si preannunciava  come un ballet-movie  si tramuta pertanto gradualmente in un thriller psicologico un pò schizzato, direttamente imparentato con il melodramma (e che melodramma!). Qui infatti tutto è trasfigurato in altro (il gioco di specchi e di riflessi a cui accennavo prima), sequenze di danza comprese, che il regista “cangia” attraverso spettacolari metafore visive di una “mutazione”  anche mentale e che almeno in una sequenza, assume quasi il senso  insano di una trasmutazione fisica di stampo un pò cronenberghiano. Ogni fotogramma descrive così (e ribadisce), la crisi della giovane donna,  il suo progressivo riconoscersi nell’altra e in quella trasmigrarsi, fino a diventare un doppio di se stessa, sconosciuto e spaventoso.
Assolutamente coerente con le soluzioni spesso estreme (anche per quel che riguarda la scelta del linguaggio  cinematografico), il regista procede poi ad operare una specie di “frantumazione dello spazio visivo”  intorno alla figura della protagonista che si esplicita  attraverso un continuo, crescente  moltiplicarsi dei piani luminosi e di quelli riverberanti (e di conseguenza in una  duplicazione delle immagini), dove persino le lesioni inflitte al corpo (effetto di quella nevrosi autolesionistica e fortemente punitiva con dosi accentuate di masochismo estremo) vengono riconosciute da Nina solo attraverso la percezione  della propria immagine rimandata dagli specchi, che è poi quella “di un’altra di sé”, quasi che la carne si fosse smaterializzata nel confronto continuo con il proprio doppio (ancora Tommaso Mozzati).
Al prepotente, arrogante direttore del balletto presta volto e grinta il sempre notevole Vincent Cassel,  inflessibile demiurgo, mentre in un una parte secondaria (ma fortemente significativa) come quella di Beth, la sfortunata “stella cadente”, ritroviamo una rediviva Winona Ryder: pochissime le scene in cui lei appare, ma sufficienti a confermare il suo talento e l’immutato carisma (e anche loro contribuiscono così al meglio insieme a tutto il resto, per fare di questa pellicola maniacale e psicotica come poche altre, un qualcosa di viscido e viscerale, sublime e patetico al tempo stesso, che si offre allo spettatore  con la forza dirompente di un audace, innovativo e modernissimo melodramma che sfocia nella tragedia .

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