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I guardiani del destino

Regia di George Nolfi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I guardiani del destino

di lussemburgo
4 stelle

E' singolare che un film che narra l’esistenza di guardiani del destino, esecutori e garanti di un progetto prestabilito che a loro spetta mantenere fedele alle intenzioni del creatore (o del Presidente) e rendere reale, sia così tristemente privo di regia. L’esordiente Nolfi si limita alla messa in immagini di un plot potenzialmente intrigante (grazie alla matrice di Philip K. Dick) ma svolto senza mistero, esibendo un razionalismo spicciolo che, per timore dell’esoterismo, provvede a spiegare e a risolvere molto con l’ausilio del solo dialogo, cerca di compensare l’aspirazione metafisica della trama circoscrivendola all’interno del melò.
Privato di mistero, il film viene ulteriormente appiattito da una fotografia senza spessore né qualità evocativa, infine del tutto affondato da una colonna sonora che si limita a commentare le immagini ridondando inefficacemente con tintinnii nei momenti più lievi e cupi ritmati nelle scene d’azione. Soltanto una certa lungimiranza scenografica, debitrice dell’architettura d’inizio Novecento, e alcune trovare costumistiche rendono giustizia al racconto, assieme alla credibilità dell’ingenuità consapevole di Damon e della divertita levità della Blunt.
Ma il film, nel complesso, fallisce ogni aspirazione realmente cinematografica scegliendo la via del telefilm e optando per la variante Shonda Rhymes (dramedy sentimentale) invece di privilegiare la soluzione Abrams (sfondo metafisico per azione e coinvolgimento) pur avendo graficamente mutuato i guardiani dagli osservatori di Fringe. Eric Kripke, creatore di Supernatural e, qui, produttore esecutivo, si limita a riciclare volti televisivi (tutti i comprimari), a ribadire tematiche sovrannaturali e a indirizzare la messinscena verso la sola funzionalità dell’illustrazione. L’ormai consueta eco di Mad Men si incarna negli abiti dei guardiani e nel volto di John Slattery, diventato sinonimo filmico degli Anni Sessanta (Iron Man 2), a cui si aggiunge l’icona Stamp, angelo decaduto sin da Teorema.
Il pregevole gioco delle porte mobili e comunicanti evoca il medesimo stratagemma di Monster & Co, le uniformi rimandano ai pompieri illetterati di Fahrenheit 451, le scenografie alle geometrie razionali del cinema (e della serialità) degli Anni Sessanta ma l’insieme non sembra amalgamarsi in visione pop o trascendere nel postmoderno bensì in puro modernariato, una ‘seconda mano’ che guida con poca fermezza gli inseguimenti e le fughe che riempiono un film mai all’altezza delle esibite ambizioni. Tutte le potenzialità della trama e alcuni pregi della confezione si perdono nell’assenza di quella salutare stilizzazione che avrebbe potuto sollevare una pellicola che, così, avanza per faticose accelerazioni verso il suo posticcio e sereno finale.

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