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Il tempo che ci rimane

Regia di Elia Suleiman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il tempo che ci rimane

di laulilla
8 stelle

La cronaca di questi giorni, purtroppo, riporta d'attualità i problemi sollevati dal film più di dieci anni fa.

 

La storia dei difficili rapporti fra i nativi della Palestina, dopo il riconoscimento internazionale dello stato ebraico di Israele, è ricostruita attraverso quattro episodi della propria storia familiare da Elias Suleiman, regista di ascendenza cattolica per parte di madre, il quale ci ricorda che, prima del 1948, anno in cui fu costituito - con l’avallo dei potenti della terra - lo stato di Israele, nello stesso territorio, convivevano pacificamente gruppi di palestinesi di culture e religioni diverse, che conducevano una vita dignitosa e civile, che non gradirono affatto la nuova condizione.

I primi tentativi di rivolta vennero brutalmente stroncati: alcuni pagarono con la vita, altri accettarono faticosamente la situazione, nutrendo propositi, più o meno velleitari, di ribellione e di rivincita.

 

Fuad Suleiman, padre del regista, esperto tornitore di Nazareth, un tempo fabbricante di armi, dopo aver drammaticamente subito, sulla propria pelle, le conseguenze del nuovo stato di cose, sembrava aver ritrovato, oltre alla propria casa, il proprio lavoro e la possibilità di farsi una famiglia con la donna amata, che riteneva perduta.

Israele, infatti, aveva cercato, inizialmente, un consenso vasto intorno a sé, garantendo diritti civili e religiosi a tutti, anche a coloro che ebrei non erano. Col passare del tempo, però, purtroppo, i rapporti fra i diversi gruppi etnici e religiosi peggiorarono e intorno ai vecchi abitanti del territorio israeliano cominciarono a crearsi sospetti e incomprensioni, in un lento, ma inesorabile crescendo di sopraffazioni e intimidazioni.

Nel raccontarci la storia della sua famiglia, e quindi anche la propria storia, Elia Suleiman ci mostra con dolorosa ironia e con incredulo sbigottimento l’assurdità di una situazione in cui da una parte lo stato di Israele, grazie alle sue istituzioni efficienti e democratiche, assicura a tutti la scuola, la sanità, l’assistenza agli anziani, ma contemporaneamente limita sempre più le libertà individuali degli antichi abitanti palestinesi, in modo ottuso, non riuscendo a distinguere, ad esempio, un’attività di pesca notturna da un traffico d’armi; una scorta di bulgur dalla polvere da sparo.

Il risultato di questo modo di procedere è l’umiliazione continua, la sensazione di vivere una vita senza speranze e senza identità, nonché la frustrazione di ogni progetto per il futuro.

 

Il regista assiste, con assoluta impassibilità, al progressivo degrado della dignità delle minoranze umiliate, con occhi attoniti e sbigottiti, che a molti hanno ricordato la fissità dello sguardo di Buster Keaton.

I fatti, sembra dirci, parlano da sé, e preludono, forse, se non cambierà nulla, a una deflagrazione dalle imprevedibili conseguenze, di cui è metafora la vicenda con cui il film si apre: quella del taxi che ha smarrito la strada e che, avendo anche esaurito la benzina, è destinato a perdersi in una tempesta d’acqua e di fulmini di insospettabile violenza.

 

 

 

 

Film molto bello, col suo tono pacato e e doloroso, ma senza odio: quasi un invito alla ragione, prima che sia troppo tardi.

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