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Another Year

Regia di Mike Leigh vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Another Year

di spopola
8 stelle

Leigh ci invia un importante messaggio attraverso il quale sembra volerci ricordare che il tempo che scorre intorno e dentro di noi non può essere controllato, ma può essere però investito di un senso esistenziale se solo ci si impegna ad utilizzarlo per tentare di risolvere le proprie nevrosi e per imparare ad accettarsi per quello che si è.

“Qual’è il motivo ispiratore che l’ha portata alla realizzazione di quest’opera?”: ecco una delle domande che con più frequenza mi viene posta nel corso delle interviste. Per me però è sempre una domanda senza risposta, nel senso che io non so darne di concrete e certe, e questo se vale per tutto il cinema che ho realizzato fino ad ora, è particolarmente calzante per Another Year. E allora magari rispondo come in questo caso e piuttosto genericamente che “questo film tocca vari temi”. Ma se si insiste nel chiedere notizie più precise, posso aggiungere che “essenzialmente è una riflessione sulla vita”, anche se mi rendo conto che nemmeno questa è una risposta esauriente e che può addirittura suonare pure pretenziosa alla fine. Il fatto è che i miei film non ruotano intorno a un’idea, tanto meno questo. L’unica cosa che potrei davvero dire con certezza quindi, è che ora ho 67 anni e che Another Year si confronta con alcune preoccupazioni esistenziali più  vicine alla mia generazione (e quindi a me) che non alle altre, e spero che questo sia per voi sufficiente.. (“libera” traduzione dall’inglese di una dichiarazione del regista rilasciata in occasione della presentazione al Festival di Cannes di Another Year).

 

Essenziale nella regia, elegante nella scansione narrativa scandita dal trascorre delle stagioni, Leigh si conferma con il suo Another Year, certamente un buon regista (sa impaginare come pochi le storie che racconta) ma soprattutto un ottimo sceneggiatore (o “suggeritore”, visto che lascia sempre molto spazio alle improvvisazioni degli interpreti)  e uno straordinario  “direttore” degli attori dai quali, grazie alla sua metodologia preparatoria che mette in campo prima di girare  (un po’ come si fa con il teatro) riesce a estrarre succhi genuini di autenticità. Fondamentali  per questo lavoro di “costruzione introspettiva”, sono dunque proprio gli “spunti”, le parole che ha selezionato (la sceneggiatura, sempre “variabile” però in corso d’opera come già detto) e il rapporto empatico con un gruppo di in interpreti di lunghissima frequentazione, con i quali si “intende a prima vista” e riesce a costruire già durante le prove a tavolino, la ragnatela delle emozioni che poi trasferirà dentro lo schermo, capace com’è di cogliere (e di farla percepire allo spettatore) la complessità di ogni personaggio in una inquadratura, o in un semplice, prolungato primo piano che permette all’attore/attrice di “confessarsi” in diretta davanti alla cinepresa, così da infondere ad ogni battuta pronunciata, il genuino sapore della verità: Quando inizio a lavorare a un film non ho mai l’idea di che cosa sia. Ogni volta per me è un’avventura, un’esplorazione in cerca di senso. Parto dai personaggi e il momento chiave è quello delle prove: ogni attore non conosce la storia, sa solo quello che deve sapere il personaggio. Mettendoli insieme nascono i rapporti, la struttura si modifica, magari si sconvolge del tutto, e si comincia a vedere la luce. E’ Leigh stesso a dichiararlo, e  per comprendere che razza di lavoro sia davvero quello che viene svolto prima di girare, basta ricordare che per Another Year le prove preparatorie “fuori scena” si sono protratte per ben cinque mesi, ed ho già detto tutto: naturale che ne venga fuori una pellicola pressoché perfetta come questa nell’intarsio delle figure  e delle loro fragilità ed emozioni, che si incastonano in una struttura narrativa molto “musicale” fluida ed armoniosa come una sonata.

Partiamo allora dai suoi attori sempre strepitosi,  spesso attempati, bruttini e un po’ sovrappeso, così comuni  da non fare storia, ma perfetti per calarsi nelle atmosfere amare delle sue “commedie” umane (un po’ alla Balzac se mi è consentito il paragone, anche se ovviamente lui sceglie poi strade diverse dallo scrittore, ed anche - all’apparenza  - più leggere, ma non meno profonde).

Basterebbe in questo caso il notevole incipit assegnato alla bravura di una superlativa Imelda Staunton – la signora insonne della prima scena (e che praticamente anticipa quasi tutto di quello che vedremo dopo, o meglio di ciò che sapremo “cogliere” dal film con la nostra sensibilità critica di osservatori attenti: io la  considero una specie di preludio non narrativo, ma emotivo quella scena. – dice ancora Leigh – E’ un modo per preparare lo spettatore, a livello subliminale, a quello che lo aspetta dopo. Ed  oltre questo, è anche poi a mio avviso una sequenza in qualche modo speculare a quella conclusiva, poiché il film si apre e si chiude sul volto, ripreso a distanza ravvicinata, di due donne infelici e sole, vittime del loro dolore, preda di una depressione che fatica a trovare una soluzione: la felicità stavolta non è contagiosa sembra voler chiosare Leigh, ma un privilegio che non a tutti è dato di conoscere (riferimento “consequenziale” rispetto alla sua precedente fatica  o contrapposizione realistica delle cose?). Mi fermo qui per il momento però e ricomincio da capo, perché mi sembra di avere “anticipato” troppo i tempi e me ne scuso. Meglio andare per gradi, tornando dunque al film e alle sue storie.

Straordinario osservatore e narratore della vita quotidiana e dei piccoli e grandi problemi che affliggono la gente comune, il regista  con Another Year torna a mettere nuovamente al centro del suo cinema quella classe media dei sobborghi londinesi, sulla cui esistenza aveva già scandagliato in precedenza  (Dolce è la vita o Segreti e bugie), e che conferma di conoscere (e di comprendere) come le sue tasche.

Questa volta si ferma ad osservare la vita di una coppia che vive fuori dalla grande metropoli: Tom, ingegnere geologico, e sua moglie Gerri, psicologa, che vivono con serenità la stagione matura della loro esistenza fra il lavoro, la cura minuziosa dell’orto, le domeniche col figlio Joe e i frequenti incontri con gli amici. La loro è una coppia intimamente unita, attenta alla realtà circostante, che sa godere della vita e delle piccole cose, capace di comunicare i propri sentimenti attraverso minimi gesti o rapide occhiate, spesso senza bisogno di parole. Il film è davvero tutto qui, “su” e “intorno” a loro, e si conferma  un esemplare contenitore di emozioni.

Le cene con gli amici e il figlio, rappresentano infatti i momenti topici di gioia e di scontro, in un racconto ritmato dal passare delle stagioni con le loro diverse temperature anche emotive. La “primavera”, l’”estate”, l’”autunno” e l’”inverno” sono i quattro capitoli del film, rappresentano il variare del tempo cronologico  e il mutare di quello atmosferico, con  la maturazione delle verdure nell’orto, le nascite e le morti, la ripetitività e il vuoto che regna nelle vite di molti dei personaggi, quegli amici e parenti che insieme a loro costituiscono un’umanità infelice, vittima della solitudine, depressa, che ripensa a un passato che non c’è più ed è priva di slanci verso il futuro. Mary, per esempio, l’altro personaggio in assoluto primo piano, una collega di lavoro di Gerri che si illude di incontrare l’uomo della sua vita occhieggiando nei locali, ma finisce poi per affogare sempre nell’alcool  la sua solitudine: Il personaggio di Mary, a sua volta centrale (dice ancora Leigh), è molto estremo nella sua fragilità, portatrice di un disagio evidente che esprime con assoluta evidenza. Non sta però a me spiegarlo, ma è il pubblico che dovrà comprenderlo a suo modo. Ciascuno maturerà così  opinioni e sentimenti personali e si farà una propria idea. Di certo è una donna sfortunata ma è difficile dire se i suoi problemi siano esclusivamente motivati da un passato  di cui è vittima  o se in parte ne sia responsabile. Ha comunque vissuto alti e bassi, grandi passioni. Ed è una donna che suscita empatia. L’attenzione che  dedica il regista a questa donna, lo conferma: Mary, che si concentra caparbiamente di volta in volta su una diversa  effimera, (im)possibile “promessa” di felicità, che lei però si illude di vedere sempre a portata di mano, come una macchina nuova da acquistare o l’improbabile conquista di un uomo che non la vuole… Ma dietro il trucco pesante del suo volto e le chiacchiere fatue del suo continuo blaterare, lo sguardo impietoso del regista svela  un abisso di infelicità che deflagra alla fine “nell’inverno del nostro scontento” (Barbara Corsi, citando Shakespeare e Steinbeck), perchè Mary non ha più il senso della realtà (forse lo ha perso da parecchio) e se si nasconde dietro sorrisi e moine, è solo per non rivelare la profondità della sua disperazione.

Intorno, ci sono poi tutti i restanti personaggi della storia: Kennie, amico di Tom continuamente intento a bere e a mangiare voracemente, che nasconde a sua volta sotto un’apparente sicurezza, la sua depressione galoppante. Possente e forte solo in superficie, crolla infatti di fronte ai suoi amici confessando alla fine tutta la sua inadeguatezza  nella vita e nel lavoro;  Ronnie, il fratello di Tom, che al funerale della moglie deve subire gli assalti e le minacce del figlio violento e pieno di rancore, chiuso in un’afasia permanente, così trattenuto e lento nei gesti da assomigliare a una maschera tragica sul cui volto impassibile però le sofferenze e le disgrazie hanno lasciato solchi profondi ed evidenti; il figlio Joe, all’inizio un po’ disorientato, che finalmente si decide a portare a casa la fidanzata, una vivace ragazza piena di gioia e di sorrisi, l’unica  forse che può dare un contributo in positivo al rafforzamento e alla tenuta di  quel “saldo” nucleo familiare a cui tutti si aggrappano, fluttuanti come sono, e bisognosi di avere almeno “il punto fermo” rappresentato da quella inossidabile coppia che li ospita spesso a cena: salda nel proprio amore, accogliente e tollerante verso gli amici, con un modo sincero di confrontarsi e di commentare ciò che vede o che ascolta.

Una coppia quella insomma, che  fa da straordinario contraltare alle finzioni “mascherate” degli amici per inseguire una giovinezza che non c’è più, o per riempire la vita con nuovi effimeri obiettivi solo di circostanza.

Leigh sembra volerci  ricordare che il tempo che scorre intorno e dentro di noi non può essere controllato, ma può essere però investito di un senso esistenziale se solo ci si impegna ad utilizzarlo per tentare di risolvere le proprie nevrosi e per imparare ad accettarsi per quello che si è, amando senza compulsioni, e lasciandosi amare senza complessi o restrizioni (ed è un “messaggio” di non poco conto).

Scorrono le stagioni, come si è visto, ma la vita è sempre uguale, un fluire del tempo in apparenza senza evidenti fratture. Gli unici cambiamenti visibili, sono quelli dell’orto che varia secondo la stagionalità, ma è solo la natura a farlo: alla fine un altro anno è passato, e la vita ha semplicemente  fatto  il suo corso, senza che siano accaduti miracoli. Quasi niente si è modificato, non ci sono all’orizzonte nuovi amori o rinnovate speranze da coltivare.

Col procedere lento di una narrazione che ha i tempi distesi della vita di ogni giorno, diventiamo anche noi sempre più intimi di questo gruppo di persone imperfette, non belle ,segnate dagli eventi, dal tempo e dalle delusioni, ma ancora capaci di guardare avanti (o costrette dalla vita a farlo). Il malinconico primo piano finale di Mary, single malata di solitudine che non ascolta più nemmeno le parole, suggella magnificamente questa condizione: L’inquadratura finale ruota intorno alla tavola. E’ un tipo di inquadratura che utilizzo di frequent, ed in questo caso ho voluto sfruttarla nella maniera più fluida possibile. Mi è sembrato assolutamente naturale chiudere il film con un “e Mary?”. E’ un finale interrogativo, lascia lo spettatore  a riflettere e ponderare il senso globale di quanto ha visto. E che mi auguro resti nella memoria. (Leigh)

Il regista, secondo una cifra stilistica ormai riconoscibile e consolidata, aderisce da vicino ai corpi e ai volti degli attori, non si concede mai una distanza: nel film c’è solo un capo lungo dedicato a una Londra lontana e anonima, una panoramica neutra che “semplicemente” ci mostra il cantiere dove Tom lavora. Per il resto, la sua macchina da presa  si “accontenta” di riprendere i protagonisti attorno a un tavolo, come accade spesso in questo film e come lo stesso Leigh ha dichiarato, in cucina se fa freddo, in giardino se il sole comincia a scaldare, attenta comunque  a tenere fuori e a neutralizzare, ogni possibile causa oggettiva di tensione che provenga dall’esterno: nell’inquadratura ci sono solo persone, piccoli movimenti, gesti (spesso “tic”) e parole. Tutto il resto (l’amore, il dolore, la politica, la morte, la gioia) rimane rigorosamente fuori campo(se ne sente solo l’eco, mentre anche la più tradizionale delle dissolvenze – quella definita “in nero” - è utilizzata  solo per  contrassegnare “classicamente” l’avvicendarsi delle stagioni).

Finiamo con gli interpeti, tutti stupefacenti come già detto, compreso i new entry: Jim Broadbent,  Ruth Sheen, Lesley Manville, Peter Wight e  gli altri ancora del corposo elenco che fanno a pieno titolo “parte integrante della famiglia”: la mimesi è così assoluta; la profonda e sentita verità di ogni gesto, assicurata.

 

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