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Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film

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La recensione su Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

di Peppe Comune
8 stelle

Boonmee (Thanapat Saisaymar) è un piccolo imprenditore thailandese che soffre di gravi disfunzioni renali. Sa di stare molto male e decide di curarsi andandosene a vivere in aperta campagna. Con lui ci sono Jai (Samud Kugasang), un suo dipendente originario del Laos che gli fa da infermiere personale, la cognata Jen (Jenjira Pongpas) e il figlio di quest’ultima, Thong (Sakda Kaewbuadee). Una sera, mentre Boonmee è a tavola insieme alla cognata e al nipote, gli appaiono il fantasma di sua moglie Huay (Natthakarn Aphaiwong), morta diciannove anni prima, e una specie di uomo scimmia dagli occhi fosforescenti che è la forma assunta dal figlio Boonsong (Jeerasak Kulhong). I tre gli parlano tranquillamente, perché sanno che quelle visioni sono la prova che la morte non esiste e che la vita si rigenera sotto altre forme. Boonmee capisce che è arrivato il suo tunno e si mette in viaggio nella foresta rigogliosa per arrivare ad una grotta che penetra fin dentro le viscere della terra. Qui può anche attendere la vita che rinasce.

 

 

“Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” (premiato a Cannes con la Palma d'oro) dell’autore thailandese Apichatpong  Weerasethakul è un film dalla veste modernissima con un contenuto antico, con una messinscena pronta ad accogliere le forme del mistero, a far incontrare in uno stesso spazio la realtà concreta dei corpi con la loro dimensione metafisica. È un cinema che arriva da terre lontane, che parla di fonti miracolose, di grotte “materne”, di morti che ritornano dai loro cari, di rincarnazione in forme animali o vegetali, di luoghi incantati. Un cinema sospeso tra naturalismo visionario e mistica della natura corporea dei luoghi, popolato da persone pronte ad accogliere il mistero con una facilità irrisoria, perché consce che la vita stessa è un mistero e che volerlo penetrare fino in fondo significa dover oltrepassare il limite del conoscibile umano, le soglie della realtà sensibile. Gli occhi dei protagonisti credono esattamente a quello che vedono, senza nutrire alcun dubbio sull’eccezionalità delle visioni che gli si pongono davanti, come chi è abituato a convivere con il senso del magico insito in ogni cosa, sempre pronto ad accogliere il fantastico nel quadro delle proprie esistenze.

Apichatpong Weerasethakul ci  porta al limite della morte e poi tende ad educarci alla vita insinuando l’idea che essa può sempre rigenerarsi sotto forme diverse. Un film che dunque presenta una matrice filosofica, ma che non si riempie di complesse dissertazioni speculative, ma facendosi luce attraverso il semplice convivere dell’uomo con il carattere mistico attribuito alle cose varie e mutevoli della natura. Una luce che il cinema fa emergere mostrando quando tutto questo avviene e in che modo l’essere umano si mette alla serena ricerca della sua essenza più misteriosa. La regia dell’autore thailandese rimane sempre discreta, ponendosi sempre alla giusta distanza. I primi piani sono praticamente assenti, mentre si fa un largo uso dei campi medi, sufficienti a inquadrare i protagonisti in relazione al contesto naturale in cui si trovano, a generare tra le due cose un rapporto dialettico fattivo.

Apichatpong Weerasethakul dimostra di non coltivare l’ambizione di far capire attraverso il cinema l’identità culturale che permea nel profondo il vissuto della sua terra ma di mostrarcela per donargli quella reale e concreta adesione alla vita, per togliergli quella connotazione esclusivamente mitica. Usa la macchina da presa con perfetta simmetria, disegnando linee immaginarie che costringono lo sguardo a dover catturare il tutto e non a indirizzare l’attenzione solo su singoli particolari. Il film segue così un ritmo ben codificato, le inquadrature sono perlopiù fisse mentre i dialoghi seguono l’andamento cadenzato della narrazione. Si è come in un polittico che ha una sua uniforme coerenza. Ognuno è esattamente al posto in cui deve stare e a fare quello che va fatto nel momento in cui occorre farlo. Non che i protagonisti sappiano già come andranno le cose e come queste cose incideranno sulle loro vite, semplicemente non se ne preoccupano. Ecco, la forza del film sta proprio in questo saper penetrare l’inconoscibile in maniera semplice e diretta, nel popolare lo schermo di cose fantasiose senza sottomettere la linearità del racconto filmico all’interpretazione simbolica dei fatti. L’uso di simboli non è fine a stesso, non vuole essere una mera alchimia scenografica, nell’economia della narrazione essi sono parte integrante del mistero da svelare, non un semplice tramite letterario. Le cose sono esattamente come le guardiamo e stupircene per il puro gusto di farlo può significare sottomettere la ricerca della componente misteriosa insita in ogni singola esistenza a tutto ciò che non capiamo semplicemente perché ci appare inconsueto.

Questo mi sembra il senso più profondo di questo film dalla leggerezza eterea che ci parla con un’altra lingua possibile delle cose del mondo. Viva il Cinema.    

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