Espandi menu
cerca
Rabbit Hole

Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film

Recensioni

L'autore

amandagriss

amandagriss

Iscritto dal 26 aprile 2013 Vai al suo profilo
  • Seguaci 132
  • Post 6
  • Recensioni 230
  • Playlist 3
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Rabbit Hole

di amandagriss
9 stelle

 

 

Universi paralleli? Sì, grazie…

 

Chi fruitore di cinema (americano), non si è imbattuto, almeno una volta, nella visione di opere ambientate nelle periferie/quartieri residenziali yankees, veri e propri microcosmi tanto simili a rifocillanti oasi nell’arido e grigio caos urbano,

tranquilli e sicuri porti in cui approdare e riprender fiato, lontani (anni luce) dalla frenesia ed i pericoli metropolitani?

Sobborghi, o per meglio dire, ‘adiacenze’, ‘dintorni’ fatti di magnifiche villette a schiera, ognuna contornata dal giardino e i fiori sempre freschi, con lo steccato appena ripassato di vernice e l'architettura esterna che varia da edificio a edificio.

Case perfette, che riflettono (o almeno così suggerirebbero) la vita altrettanto perfetta di chi le abita.

Immune dal dolore e da brusche (a volte definitive e affossanti) battute d'arresto.

E invece, spesso, tra le presunte rassicuranti mura di queste regge in miniatura, si consuma lo sfacelo di esistenze andate in frantumi, annientate da tragedie umanamente incomprensibili e inaccettabili, come l'esperienza lancinante di vedere morire un figlio.

 

 

Sopravvivere al proprio bambino è l'occupazione principale dei coniugi Nicole Kidman ed Aaron Eckhart, superstiti sanguinanti di un destino crudele, attanagliati da un dolore intimo, privato, che non oltrepassa il candido steccato bianco, recluso nella loro casa da sogno trasformatasi in un inferno ad occhi aperti: perenne castigo dove ogni angolo, un tempo paradisiaco, adesso rivela tracce di una presenza oramai perduta, svanita. Estinta.

E con essa speranze, desideri, progetti. Il futuro. La vita.

Dolore mai sazio, che trae nutrimento dall’esistenza stessa.

Che inesorabile va avanti, indifferente ed incurante nei confronti di chi ha dovuto arrestare la sua corsa e di chi, pur continuando a correre, si è fermato lo stesso, finendo col lasciarsi scivolare addosso ore, giorni, settimane, mesi, anche anni, inghiottito dall’incapacità di trovare la forza necessaria (o la volontà) per frenare la propria caduta libera nel baratro del nulla.

Mettere un punto fermo, voltare pagina, riprendere la corsa. Andare avanti.

 

Noi spettatori veniamo chiamati a partecipare alla tragedia quando questa ha assunto i contorni dell'ordinaria quotidianeità. Quando dopo la tempesta della perdita subentra il caos calmo dell’accettazione e della ripresa di una normalità familiare mai più davvero normale.

Il tempo non risana le ferite ma le piaga ulteriormente, consumando l'anima, troppo debole fragile provata per veicolare nel modo giusto (se un modo giusto esiste), nel giusto canale (diverso per ognuno) una sofferenza opprimente, straripante, invadente, prepotente, distruttiva. E darle finalmente sfogo.

A poco o nulla servono i gruppi di sostegno, la fede nel nostro buon Dio, i goffi tentativi di evasione dalla routine quotidiana, il rifugio in un’intimità coniugale incrinata.

Orfani del proprio figlio, marito e moglie fluttuano in balìa dello smarrimento, della sgradevole sensazione di sentirsi alieni tra la gente, fuori da quel mondo che una volta li ha ben voluti, promettendogli felicità e prosperità, e che ora intrappola in un limbo che pare ogni giorno di più restringerglisi attorno, fino a schiacciarli.

Madre e padre, con diversi modi di elaborare il medesimo lutto.

Tra (auto)accuse reciproche e reciproche assoluzioni, i personaggi prendono straordinariamente vita grazie al vigore interpretativo di una coppia d’attori fortemente affiatata: entrambi mostri di bravura si dividono la scena senza mai prevaricare l'una sull'altro, merito anche di una solida sceneggiatura (tratta da una pièce teatrale Premio Pulitzer di David Lindsay Abaire) che dà spazio al dolore del padre quanto a quello della madre, di una sensibile regia, abile nell'orchestrare un magnifico duetto tra talenti nati solisti e nel dirigere con garbo e delicatezza un’opera in cui tutte le possibili sfaccettature del senso della perdita vengono messe in risalto.

Ognuna col suo peso, ognuna, allo stesso modo, importante.

 

Racconto denso e vibrante su un dolore pulsante e inesauribile, con cui ogni giorno bisogna imparare a convivere.

Che guarda in faccia l'atroce verità di cui è fatto, scartando saggiamente la pretesa poco credibile, se non irritante, di concludersi con un rassicurante happy end.

Continuando, invece, a tessere il filo della pena e con essa della sospensione e dell'incertezza esistenziali annichilenti.

 

Commovente, fluido e ritmato, è illuminato da un ottimo finale,

l’unico possibile, che risplende di un nuovo, forse finalmente vero, inizio.

 

 

 

 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati