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Rabbit Hole

Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film

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La recensione su Rabbit Hole

di spopola
8 stelle

E’ per me difficile, quasi impossibile direi per come sto e mi sento, annullare (o semplicemente mitigare) l’instabilità debordante degli scompensi emotivi che la tua dipartita rende sempre più persistenti e inarrestabili. Stretta nel desolante isolamento della botola – queste stanze – dove sto rannicchiata come in un barattolo dal quale è sempre più difficile rimbalzare fuori, sono intrisa di rabbia e di furore per la terribile ingiustizia che mi ha amputato la propositività dell’esistenza…una rabbia furente che non si smorza mai e non mi dà respiro, come un macigno che franando a valle si ingrossa e si rafforza portandosi dietro tutto ciò che di friabile trova sul suo percorso.

Il vuoto di questa desolante privazione – adesso ne sono assolutamente certa – non sarà mai colmato, da nulla e da nessuno, né diventerà meno feroce, poichè nemmeno il tempo riuscirà  a far rimarginare del tutto la ferita… ma anche se è proprio la tua assenza la primaria ragione di tanto spaesamento doloroso, non è solo il pensiero della morte ad avere squarciato il mio cuore…poiché ancora più tremendo ed angosciante è il  pensiero – che poi ormai è una certezza consapevole - di aver perduto la mia vita insieme a te ciò che mi fa stare così male e che a lungo andare, potrà soltanto peggiorare ulteriormente la mia condizione di segregata volontaria che non ha più – né vuole avere – alcuna speranza di futuro.

Se è faticoso vivere il presente infatti, ancora più difficoltoso e duro è il  rapportarsi con gli anni che verranno, immaginarli per quelli che saranno (o che potranno essere), tanti o pochi, non ha importanza, ma comunque da trascorrere spogliata di desideri e di emozioni, nell’aridità desertica del sopravvivere nonostante tutto, che si profila come una certezza inoppugnabile alla quale non sono in grado di sottrarmi né di oppormi, poiché non ho nemmeno il coraggio o la forza di interrompere il fluire monotono dei miei inutili giorni.

I genitori, una madre, un padre, non dovrebbero mai essere costretti a subire la perdita prematura di un figlio, è innaturale, e quando questo avviene, è davvero difficile farci persino i conti perché più che un’ingiustizia o una ritorsione, ti sembra soprattutto uno scherzo atroce del destino che ti piomba addosso come una mazzolata, poiché  la coerente convinzione della logica inoppugnabile delle cose, si è tragicamente frantumata scompigliando le carte, truccando il gioco e scombinando il mazzo, nel suo scambiare così  subdolamente l’ordine dei fattori e la cronologia temporale delle “scadenze” sul calendario. Come si fa ad accettare? Come è possibile rassegnarsi? Io non lo so proprio, perché mi sono definitivamente spenta quando ti ho perduto. Difficilmente immagino che possa esserci qualcosa o qualcuno in grado di riaccendere persino una candela, figurarsi il fuoco che alimenta l’esistenza. Arranco allora  disomogenea e stralunata persa dietro il nulla incolmabile dei miei pensieri, dentro la giostra impazzita della vita che si ostina a continuare il suo giro, a dispetto di tutto, persino del mio lutto, un carrozzone disumano su cui non riesco più a stare sopra, senza però trovare poi il coraggio - e ce ne vuole tanto – per catapultarmi definitivamente fuori. La forza estrema di farla davvero finita che mi manca, mi costringe così ad andare avanti, amorfa e disturbata con il pesante fardello di chi non accetta di esserti sopravvissuta, di essere ancora viva, ma senza più il tuo sorriso, il tuo giocoso incedere, il tuo chiamarmi “mamma” a consolarmi.

 

Come potremmo definirla questa interessante pellicola che quando l’anno scorso è sta distribuita (poco e  male) nelle nostre sale avrebbe meritato davvero migliore attenzione da parte di un pubblico sempre più distratto e latitante?

In primo luogo, un potente dramma familiare sulla tragedia di una perdita scioccante e sulla necessità che ne consegue di affrontare un’assenza incolmabile provando a convivere con il dolore, lo smarrimento, il senso di vuoto e di isolamento che privano ogni cosa di valore e di futuro, ma anche  – e non secondariamente - sull’impossibilità di ritrovare una serenità e un equilibrio nel quotidiano, nel non riuscire a confrontarsi insomma con un mondo che va comunque avanti nonostante tutto, uno stato di prostrazione profonda difficilmente compensabile e ricomponibile che determina una totale disconnessione anche percettiva con tutto ciò che ci circonda, che finisce per creare distanze abissali e un isolamento rabbioso che innesca un cortocircuito quasi dissociativo.

Tratto fedelmente dall’opera teatrale di David Lindsay-Abaire (sua anche la sceneggiatura), una bellissima pièce di forte presa drammatica giustamente premiata col Pulitzer nel 2007 (la prima rappresentazione a New York interpretata da tra valenti attori della scena teatrale americana come Cynthia Nixon, Tyne Daly e John Slattery risale al 2006), Rabbit Hole è dunque prima di tutto un viaggio intimo e traumatico intorno ai sensi di colpa, i disagi e le sofferenze causate da un imprevisto e inaspettato lutto, il tutto raccontato però con semplicità e un insolito pudore quasi trattenuto che ci fa pienamente percepire la portata di uno spaesamento anche sensoriale, sorretto da una forza drammatica tutta interiorizzata e dove non viene mai pigiato troppo l’acceleratore della “commozione” a buon mercato.

La forza della pellicola sta dunque principalmente nello “scontro”di due isolamenti paralleli (due differenti e incompatibili modalità di convivere con una irreparabile amputazione come quella che hanno dovuto subire Betta e Howe a causa di un banalissimo incidente stradale).

La storia è tutta qui, ed è quella che riguarda la vita di questa giovane coppia che si è all’improvviso spezzata per la morte del loro piccolo figlio di 4 anni,  travolto da un auto davanti al cancello della loro casa, mentre giocava a inseguire il cane sfuggito al controllo e del loro non riconoscersi più dopo quel lutto “amputativi”: lei che ha abbandonato il lavoro e sta provando (poco e male per la verità) a ridefinire la propria esistenza quasi annullando la presenza esteriore del figlio che non ha più  e cercando un impossibile conforto  anche compensativo nella cura maniacale del giardino supportata dalle premurose e spesso “fastidiose” attenzioni dei parenti più prossimi e di qualche fedele amico, tutti animati da buone intenzioni, ma spesso inadeguati e insufficienti; lui più propositivo forse, ma ugualmente (dis)turbato, caparbiamente impegnato invece nella rielaborazione (tutt’altro che catartica) della memoria  e ossessivamente trincerato per questo a coltivare i ricordi nostalgici di un passato felice ma irrecuperabile, fra filmati e fotografie  che rendono ancora più struggente l’assenza.

L’elaborazione del lutto, come nel morettiano La stanza del figlio (con cui la storia risulta imparentata per più di una ragione, soprattutto sotto il profilo dell’emotività della percezione), mette inevitabilmente in crisi anche il rapporto di coppia (affettivo e sessuale) che finisce per scivolare lentamente verso il baratro, quel  “buco del coniglio” del titolo che però è solo una delle metafore possibili che emergono dal narrato.

 

Il primo punto di interesse per la mia valutazione assolutamente in positivo di questa struggente pellicola (che riesce a trascinare lo spettatore verso  una compartecipazione empatica molto coinvolgente), sta però proprio nella presenza in cabina di regia di John Cameron Mitchell (che stando ai suoi precedenti virati in ben altre direzioni, sulla carta sembrava essere invece tutt’altro che la persona adatta per un’operazione di siffatto tipo). Merito dunque allora della positiva intuizione della Kidman (qui anche in veste di produttrice) che dopo essersi innamorata della pièce, al momento di passare alla fase operativa del progetto, ha optato con un azzardo davvero coraggioso, di orientare la sua scelta per l’organizzazione generale del lavoro, sul talento ondivago di un regista indipendente americano totalmente fuori dagli schemi come appunto è (o era considerato fino a quel momento), Mitchell (ricordato soprattutto per essere “quello del porno d’autore Shortbus”) che qui offre una prova trattenuta e concreta, molto consapevole e matura, e soprattutto perfettamente aderente al progetto e al senso di un testo così tragico, una performance la sua invero inaspettata rispetto ai suoi pregevoli precedenti che “osavano” molto anche nel “provocare” ma come si è detto, andavano – persino sotto il profilo dello stile - davvero in tutt’altra direzione, ben lontana da una conformistica visione delle cose (sia pure lacerante) come questa.

Se infatti già la sua opera d’esordio (Hedwig) presentava i toni spiazzanti  di un malinconicoesibizionismo pregnato da una ambiguità (di genere e comportamentale) tutta sessuale,  e il pansessualismo del già citato Shortbus, sua successiva tappa narrativa destinata a scandalizzare i più, vera e propria rappresentazione quasi epifanica del carnale, con le sue ginniche contorsioni “pompinare” che si spingeva in una zona decisamente minata per il perbenismo borghese con l’ostentazione esibita e prolungata di una pornografia invero poco “soft” inusuale “valore aggiunto” volutamente disturbante, finalizzato a una ricerca tutta interiore di sé stessi (e del “ritrovarsi”) nell’America post torri gemelle (ma ancora impregnata di un puritanesimo difficile da estinguersi) lo avevano fatto assurgere a una nomea  di autore un po’ “maudit” e fortemente destabilizzante, questa volta il regista, con una classicità anche della forma (modernamente rielaborata però alle esigenze del presente) è riuscito a riprodurre realisticamente e con navigatissimo mestiere (senza ricorrere agli eccessi delle sue precedenti opere),  tutto lo smarrimento di una sofferenza,  pienamente capace cioè di mettere in scena con dura ma partecipata commozione e assoluta essenzialità narrativa,  anche la fuga utopistica della protagonista in ipotetici mondi paralleli per ricrearsi così almeno una parvenza di “illusione” un po’ consolatoria. Il tutto realizzato attraverso una sottile e perspicace (davvero efficacissima) contaminazione di linguaggi e stili, con cui il regista tenta di  trovare e riprodurre (a mio avviso con pieno successo) la tensione crescente e disturbante della solitudine, della paura, oltre che il disarticolato, prolungato distacco dalla realtà conseguente a un dramma tanto tragico quanto improvviso come quello caduto sulle spalle di Betta e Howe, che - come già accennato prima - non può che annientare equilibri e sicurezze affettive.

Tanti “corpi” clamorosamente esibiti dunque quelli raffigurati nelle sue due precedenti opere, ma si può dire che è ancora un corpo al centro persino questa volta, o per meglio dire, l’assenza di un corpo, perché è proprio attorno a questo che gira il racconto: il corpo di un bambino morto a soli 4 anni in un incidente stradale causato da un giovane ragazzo, la cui sola  colpa è stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Dalla sarabanda erotica che aveva movimentato Shortbus dunque, il regista, mostrando una sensibilità e una professionalità più che sorprendente, con uno stile altrettanto algido e senza sbavature ma ugualmente sofisticato, è riuscito a trovare la modalità più giusta per portare in assoluto primo piano i patemi di questa coppia davvero incapace di elaborare il lutto (o di farsene in qualche modo una ragione) che non riesce più nemmeno ad avere rapporti sessuali né al suo interno, né in saltuarie occasionali alternative esterne (e il ribaltamento visivo e narrativo rispetto alle sue precedenti opere,  è dunque davvero totale nel creare un continuo e doloroso controcanto dicotomico – e in assoluta castità - di due voci ormai totalmente dissonanti che vivono però la medesima situazione di smarrimento causata appunto da una tragicità improvvisa). 

Con una regia di eleganza classica (ma tutt’altro che accademica) fatta anche di piccoli tocchi umoristici, Mitchell tratteggia così  le crisi e i drammi di un equilibrio impossibile da ricostruire  puntando soprattutto sul potere emotivo dell’immagine e del testo, uno speciale percorso espositivo il suo, che lo porta a privilegiare con un’attenzione quasi maniacale, proprio le sfumature e i dettagli, nel  seguire e fissare gli eventi anche marginali proprio nel loro evolversi, in un incedere spesso ripetitivamente metodico e giornaliero (i desideri di evasione, i prolungati silenzi che nascondono fragilità e depressioni galoppanti, le insoddisfazioni personali e familiari amplificate dal cordoglio e rese da questo quasi laceranti) narrando così senza alcun sarcasmo o compiacimento, la rabbia dell’indifferenza e dell’incomunicabilità, la stridente (im)possibile  azione consolatoria degli amici, i dissidi familiari. Regia soffusa e avvincente dunque, capace di trasmettere il senso del vuoto incolmabile, della mancanza,  dello spaesamento, anche allo spettatore più superficiale.

Si tratta indubbiamente di un cinema che può essere considerato naturalistico, particolarmente appropriato per sottolineare l’importanza di un  rifugio “sicuro” d individuare magari nelle piccole nevrosi utili ad allontanare il peso dell’imbarazzo, e la necessità di giustificare ogni comportamento (spesso irrazionale e stridente) attraverso la presa di coscienza – e l’accettazione - di un dolore che distrugge e modifica non solo la personalità, ma anche il modo di rapportarsi con chi ci circonda. 

Mitchell dunque adatta la sua forma per portare in superficie le zone d’ombra dell’opera, per indagare sui percorsi indecifrabili del destino che stravolgono sogni e speranze descrivendo con occhio impietosamente glaciale il rapporto di una coppia che va in frantumi, e all’interno della quale i rancori, il non detto, i rimpianti, finiscono per diventare gli elementi catalizzanti che trasformano una tipica famiglia upper class di New York in un inferno. Il regista insomma, vestendosi una volta tanto di quella classicità di sguardo di cui parlavo prima, rende davvero un ottimo servizio alla storia e ai suoi magistrali interpreti.

 

Il  bisogno primario e prioritario di puntare soprattutto l’obiettivo sul versante femminile, e principalmente su quello della maternità inconsolabile, è un altro degli elementi caratterizzanti della pellicola, che ritorna e si ritrova anche in altri personaggi oltre che nella protagonista (come per esempio nel rapporti anche conflittuali, con la madre e la sorella, per un fratello morto di overdose a 30 anni e per un nuovo bebè in arrivo) quasi che si volesse provare – attraverso un indistruttibile cordone ombelicale come quello degli affetti parentali -  a tracciare una mappa dei sentimenti (forti e laceranti) dai quali è impossibile difendersi. In questo specifico contesto, va inquadrato anche il rapporto ugualmente morboso che la nostra protagonista cerca di instaurare proprio con il ragazzo che ha causato la morte del figlio (e che rappresenterà un ulteriore elemento di frattura con il marito) ma che diventa  ben presto anche un appiglio per ritrovare l’apparenza di una tranquillità almeno approssimativa, come se la rielaborazione del lutto dovesse passare necessariamente attraverso l’accettazione di chi lo ha causato.

La tana del coniglio (altra straordinaria metaforizzazione di una titolazione pertinente ed esemplare) potrebbe qui essere però, come in Alice nel paese delle meraviglie di carroliana memoria, anche quel portale immaginario che consente di raggiungere un universo parallelo, uno dei tanti la cui esistenza è postulata dalla fisica quantistica e dalla conseguente teoria dell’interpretazione  dei mondi molteplici e paralleli ubicati in dimensioni alternative in cui,  probabilmente, “copie” di noi stanno facendo cose diverse, frutto di differenti scelte compiute nei disparati crocevia della vita (tesi più che affascinante, suggestiva quanto improbabile, per quel che mi riguarda).

Il diciottenne Jason, colui che era al volante dell’auto che ha travolto e ucciso il picco Danny , ha realizzato infatti un fumetto che si chiama proprio così, riversando in esso i propri rimpianti, le frustrazioni e i profondi sensi di colpa rispetto a quella maledetta mattina che ha cambiato il percorso delle cose. Nella sua vita  però, esattamente come in quella dei genitori di Danny, tutti costretti a fare i conti alla propria maniera con quella tragedia spaventosa e inconcepibile, non ci sono (né potrebbero esserci) porte o punti di passaggio capaci davvero di farli transitare in universi più felici: la realtà  in cui sono inesorabilmente condannati a vivere, è infatti per loro molto più di una prigione, quasi una trappola e forse anche una dannazione. Il film narra  proprio questa tragedia borghese con tutto il disadattamento che si porta dietro, e forse ci fa capire che in quella buca (la tana del coniglio) i coniugi Corbett ci sono già dentro, sprofondati e incapaci di ritornare a galla.

Lo stile minimalista, sobrio, lontano dalla retorica  che fotografa e dilata le assurdità delle situazioni, le distanze tra i coniugi, le ragioni della paura lenite dall’illusione della speranza, è sorretto da un ritmo asciutto e secco che annulla (giustamente) le scene madri per concentrarsi invece  proprio sui piccoli segnali rivelatori dell’esistenza,  e questo suo andamento quasi “in sottrazione” riesce a far emergere in tutta la sua prepotente potenza espositiva, il minuzioso lavoro di ricerca anche emozionale degli interpreti, tutti eccellenti come già detto, ma con una particolare menzione per la Kidman, che nonostante il botulino (ma chi glie lo avrà fatto fare, mi domando spesso!!) questa volta riesce a recuperare tutta l’intensità e l’espressività dei suoi tempi migliori. Grande ritorno il suo che la riscatta ampiamente di troppe prove opache di un passato prossimo troppo mortificante dove emergeva semmai il mestiere più che la bravura, quasi che si fosse afflosciata su sé stessa. Ottimo anche Aaron Eckhart che gli tiene degnamente testa, con una recitazione molto più  trattenuta, quasi interiorizzata a volte, ma altrettanto convincente soprattutto negli improvvisi sbalzi d’umore, come nella scena dell’erba, o in quello della visita a casa dell’amica,  risolta con un dietro front solo un tantino imbarazzato, e un indiscusso aplomb di facciata sufficiente però a far trasparire tutto il disagio interiore che lo dilania. Bravissima anche Dianne Wiest, ancora una volta superlativo esempio di misurata compartecipazione anche emotiva di un’attrice di rango superiore, e perfettamente in palla tutti  gli altri ( Miles Teller, Tammy Blanchard, Sandra Oh, Giancarlo Esposito e Jon Tenney).

 

Il racconto – la nostra storia - inizia otto mesi dopo la morte di Danny, un tempo indefinito (quasi indeterminato), che non ha un evento forte capace di “segnare” come elemento fortemente catalizzante  l’inizio del percorso narrativo (così come non ce ne sarà uno a segnarne la fine - per lo meno di ciò che ci mostrerà lo schermo – poiché il regista e l’autore del testo teatrale, scelgono di allontanarsi dalla coppia semplicemente dopo averci mostrato la lotta disperata per ridare un senso alla loro vita, ma senza che qualcosa di determinante sia cambiato o accaduto per cambiarne veramente e nuovamente il corso.  Entrambi sembrano essere alla disperata ricerca di un rifugio al proprio dolore, la tana del coniglio appunto, il passaggio a una nuova dimensione che trasfiguri per lo meno un poco la propria sofferenza: per Becca è l’amicizia con Jason, il ragazzo “reo” involontario della perdita e verso il quale abbozza sentimenti quasi materni ad aprire quel piccolo pertugio; per suo marito è invece la potenziale relazione con Gaby, conosciuta  in un gruppo di sostegno di genitori accomunati dallo stesso dramma, un rapporto però a cui l’uomo non troverà il coraggio di dare inizio.

Tra rimozione e rimorsi insomma, tutto va nella direzione di una costruzione claustrofobica e opprimente  come se tutta l’opera fosse gravata da un peso soffocante  dal quale è impossibile liberarsi.

La scelta narrativa di cercare attraverso il fumetto che il ragazzo sta creando la materializzazione di un probabile “mondo parallelo” ultima (im)possibile consolazione per una donna che non trova invero altrettanto confortante ed accettabile il  rifugio cristiano dei gruppi di autoiauto (presentati con  adeguata acrimonia) dove si asseconda il disegno di Dio anche quando sembra del tutto incomprensibile, se non addirittura crudele (il suo sfogo rancoroso di fronte al gruppo di genitori affranti ne è una straordinaria dimostrazione) è dunque un elemento abbastanza singolare, decisamente qualificante nel definire un percorso abbastanza suggestivo e altrettanto inconsueto: non  una vita “al di là”,  ma bensì un’altra (o forse addirittura persino più di una) sempre “al di qua” però, e quindi altrettanto reale, seppure sconosciuta, solo colloca in un’altra dimensione che alimenta la speranza (solo però in chi ha un disperato bisogno di credere in qualcosa) che ciò che viene a mancare nel nostro quotidiano incedere, può essere ritrovato altrove, ma sempre “da questa parte”, su una Terra “sorella” simile in tutto e per tutto a quella che conosciamo, e non in un ipotetico, astratto regno dei cieli.

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