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Rabbit Hole

Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film

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La recensione su Rabbit Hole

di OGM
8 stelle

Il dolore del poco dopo: in questo film, diversamente che in La stanza del figlio o in Moonlight Mile, il lutto per la perdita di un figlio è ritratto non nel momento immediatamente successivo all’evento, né a distanza di anni, come in Gente Comune: i sei mesi che separano i giovani coniugi Becca e Howie dall’improvvisa morte del loro bambino sono un lasso di tempo intermedio ed ibrido, in cui il passato prossimo inizia ad assumere i calmi contorni del ricordo, chiedendo di essere archiviato, senza però ancora voler completamente abbandonare l’ultimo appiglio che lo lascia aggrappato al presente: la domanda circa il perché di una felicità rubata per sempre, di un amore crudelmente strappato, di un’esistenza stroncata prima che davvero cominciasse.  I genitori del piccolo Danny - investito da un auto sotto gli occhi della madre, mentre attraversava la strada per correre dietro al cane - vivono la loro angoscia ancora come un dramma privato, esclusivo, impossibile da condividere con un mondo estraneo, che non può capire come ci si senta dopo aver conosciuto un’esperienza tanto atroce. Gli altri vanno avanti, mentre per loro la vita si è fermata, bloccata nell’incapacità di formulare progetti o avere desideri all’infuori di quello, irrealizzabile, che tutto ritorni come prima. Guardare al futuro significa, per loro, affacciarsi su un eternità che  non ha nulla da offrire, a parte la certezza di prolungare, per un numero infinito numero di giorni, quell’assenza che oggi avvertono come una terribile voragine spalancatasi nel loro cuore. Tutte le loro iniziative, e  tutti i loro discorsi, ruotano intorno a quel What now? a cui il Rabbit Hole del titolo sembra voler dare una risposta tanto fantastica quanto elusiva: scappare, attraverso quel cunicolo, imboccare quel passaggio segreto spazio-temporale che permette di ricongiungerci, in un universo parallelo, con coloro che abbiamo perduto. La fuga nel sogno è l’unico rimedio praticabile, perché coltiva l’illusione quando la realtà è intollerabile; ed è, comunque, una strada impregnata di verità se è percorsa insieme a qualcuno, ed è magari, generosamente porta come un dono personale, concepito espressamente per quel destinatario. Non esistono infatti ricette universali, per affrontare  la tragedia, che ognuno vive a proprio modo, dentro di sé: inutile confrontare le storie che appaiono superficialmente analoghe, come quelle che si incrociano, senza veramente incontrarsi, nelle sedute di terapia di gruppo frequentate dai due protagonisti. La sofferenza di ciascuno si specchia solo nelle immagini che gli appartengono (come, per Becca, i disegni di Danny appesi al frigorifero, o, per Howie, i filmati salvati sul suo telefonino), e non negli occhi altrui. Le madri ed i padri possono piangere insieme, mentre sono riuniti in cerchio per scambiarsi i resoconti del proprio strazio; ma l’immensa estensione, che, per ciascuno di loro, assume il proprio specifico trauma, occupa l’intero campo visivo, impedendo l’entrata di qualsiasi altro elemento. L’atteggiamento di Becca mostra come, in quel suo particolare stato d’animo, aprirsi al mondo significhi solo proiettare su di esso il proprio dramma, anziché partecipare positivamente alle sue gioie ed alle sue novità.  L’indicazione della via d’uscita, da questo incubo oppressivo, le arriverà proprio dalla parte più improbabile e inattesa: una piccola sorpresa che avrà, su di lei, l’effetto di una rivelazione. Una rivelazione non miracolistica ed imperiosa, come quelle di cui si narra nella mitologia, bensì una rivelazione a misura d’uomo, che, anziché aggredirci, ed urlare per farsi ascoltare, ci parla con voce tranquilla, ed attende, paziente, che il messaggio si sedimenti, in noi, alla fine del lento e faticoso corso dei pensieri.     

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