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Institute Benjamenta

Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film

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La recensione su Institute Benjamenta

di OGM
8 stelle

La ricerca della perfezione è, per l’uomo, un’ebbra schiavitù, che sottomette la sua natura animalesca solo per farne una marionetta. L’esercizio della disciplina è un’arte coreografica e formale che, soprattutto quando è praticata all’interno di una ritualità collettiva e preordinata, non arriva a coinvolgere l’essenza profonda dell’individuo. Il regista e gli attori danno vita ad un meccanismo ineccepibile, però, nei loro rispettivi ruoli, nessuno di essi  è una persona. Anche la religione può ridursi ad un culto senza adorazione, ad un’obbedienza senza partecipazione. La struttura –intesa come organizzazione liturgica o come gerarchia ecclesiale – diventa allora un contorno nitidissimo che, però, non contiene in sé alcuna sostanza; il simbolo del circonferenza, più volte riproposto in questo film, riassume proprio questa idea di compiutezza vuota e di sterile chiusura. La circolarità è inoltre la ripetizione all’infinito di ciò che rimane sempre uguale, che si avvita su se stesso anziché procedere, che gira senza scopo, non cresce e non si evolve. In questa concezione dell’eternità, tutto è fine e niente è inizio, perché, a perpetuarsi, è solo la rinuncia al cambiamento. Il sistema è tenuto insieme dal mito, verso cui si indirizzano i sogni di felicità degli adepti,  e dall’adulazione verso questi ultimi, che vengono chiamati i figli prediletti, ma educati come servitori. L’Istituto Benjamenta, severo e sinistro collegio per aspiranti domestici, è la metafora del potere sui corpi e sulle menti che imprigiona anche chi lo pratica, perché incatena il pastore al proprio gregge ed alla sua funzione di amministratore delle regole. E quando ormai si è giunti a tanto, a nulla serve più  cercare la libertà nell’evasione: allora siamo infatti tutti morti, non solo come esseri pensanti, ma anche come creature naturali. Non appena si spengono i fondamentali aneliti dell’anima, ossia l’amore e la fede, il tempo perde di significato, poiché non c’è più alcunché da coltivare o da sperare; il mondo stesso si ferma, e diventa grigio e freddo, come un paesaggio invernale che non attende più il risveglio della primavera.

In questo incubo esistenziale i fratelli Quay schiantano a terra l’elemento surreale, per creare un reliquiario gotico, irto dei fossili (i palchi di cervi) di favole silvestri e leggende pagane ormai defunte. L’atmosfera è traslucida, come per chi guardi un oggetto attraverso lo spesso vetro di una teca. La tradizione è moribonda, come l’insegnamento nello stile  di una vecchia scuola, o gli antichi motti scolpiti nelle lapidi di marmo affisse ai muri. Mancano la luce e l’aria, tra le pareti di un microcosmo ormai in declino, condannato a finire per carenza di respiro e movimento.

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