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La traversata

Regia di Goutam Ghose vedi scheda film

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La recensione su La traversata

di casomai
8 stelle

Ladri di biciclette è più vicino di quanto non si crederebbe. E' noto il debito d'ispirazione che il patriarca del cinema indiano, Satyajit Ray, ha ammesso di avere nei confronti del neorealismo italiano, dei suoi autori come della sua poetica. Se poi si considerano le filiazioni artistiche tra Ray e Goutam Ghose, regista di La traversata (suo, ad esempio, Ray, biografia filmata del grande connazionale), allora la contiguità tra questi due mondi così geograficamente e culturalmente distanti non sembrerà così azzardata. Sennonché il neorealismo è il punto di partenza, non quello di approdo, di quest'opera divisa in due parti ben definite, di cui la prima inquadra il contesto storico e umano dal quale trae origine la seconda. Ghose utilizza il mezzo cinematografico come strumento di impegno politico e di lotta civile. Nella prima parte lo sguardo del regista abbraccia coralmente la popolazione di uno sperduto villaggio del Bihar in cui i diritti più elementari, sia pure sanciti dal governo centrale della democrazia più grande del mondo, tardano ad affermarsi. L'India, nonostante le conquiste verso l'abolizione del sistema delle caste, che in tempi più recenti hanno visto un intoccabile come Kocheril Raman Narayanan diventare presidente, resta un paese fatalmente compartimentato. Il maestro bramino, l'unico a cercare di ridurre le distanze e favorire una qualche forma di convivenza civile, viene ammazzato a sangue freddo. La narrazione assume forme sofisticate e niente affatto lineari: le modalità drammaturgiche si alternano arditamente a quelle del documentario e del reportage. Seduto di fronte alla telecamera, il capo del villaggio narra allo spettatore quanto è avvenuto nel corso di una rappresaglia. Si rievocano gli antecedenti delle vicende attuali grazie ai ricordi dei sopravvissuti e si susseguono i flash-back, ricomponendo cosi un mosaico complesso ma imprescindibile per comprendere la seconda parte. Qui la prospettiva si rovescia: lo sguardo del regista si stacca dall'umanità dolente che compone il villaggio per concentrarsi su una coppia di derelitti che fuggono dal villaggio alla volta di Calcutta: "all'estero", come non cessano di ricordare (siamo pur sempre in una federazione di Stati). La coralità lascia il posto all'intimismo: Calcutta, la megalopoli dagli oltre 15 milioni di abitanti, è vista qui quasi unicamente attraverso la sensibilità e gli occhi dei due protagonisti, sconfortati ma mai domi. L'atmosfera è da Germania anno zero: la gente è come mitridatizzata dalle proprie sofferenze personali e collettive, e la carità merce preziosa. Eppure bisogna ricostruire, bisogna ricominciare, bisogna tornare a vivere. La tragedia di un popolo diventa dramma dell'individuo, e assume una valenza universale.

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