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Bal

Regia di Semih Kaplanoglu vedi scheda film

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La recensione su Bal

di OGM
8 stelle

La natura morta della vita. Una serie di quadri sobri, eppure pittoreschi, che riassumono la semplicità e il disagio. Bal significa miele, e quello che si raccoglie sui rami degli alberi è dolce e selvatico come la frugalità. È una linfa essenziale e primitiva che racchiude anche un po’ della miracolosa essenza di Dio, dell’incanto delle favole e del mistero dei sogni. Questi sono i mondi in mezzo ai quali il pensiero del piccolo Yusuf, figlio di un contadino ed apicoltore, si trova a vagare, mentre studia, parla col padre o attraversa il bosco.  Qualcosa, al di là dei suoi occhi e al di sopra della sua testa, lo rapisce fuori da quel contesto così avaro di conforti per lo spirito ed il corpo. Yusuf balbetta, non è bravo a scuola, eppure è animato da una grande voglia di scoprire ed imparare. La sua dimensione è però quella, senza pretese, delle barchette intagliate nel legno e dei nomi dei fiori di campo: è il regno dell’infanzia vera, quella che si accontenta di poco e vuole innanzitutto essere libera. Il cinema del Vicino Oriente ci insegna che la presenza di un bambino basta a riempire lo schermo con una storia. Il suo rapporto fantasioso con gli oggetti, gli ambienti, gli animali e le persone è, infatti, già di per sé, un’interpretazione artistica della realtà: un approccio curioso e sensibile, in cui la gioia e la speranza sono una danza giocosa, e la tristezza e la paura una silenziosa e poetica preghiera. Questo implicito e genuino lirismo si può tranquillamente sostituire all’inventiva dell’autore: il racconto può anche mancare di sviluppo e di originalità, finché respira il soffio dell’innocenza, che, con la sua attenzione rispettosa ed assorta, nobilita anche gli aspetti più futili dell’esistenza. Partecipare a questa visione dal basso verso l’alto è un’esperienza di rieducazione dello sguardo, il quale può così imparare ad interessarsi di nuovo al paesaggio che si scorge al di là della finestra, all’arredamento di una stanza, e a mettere a fuoco, al posto degli eventi esterni, la punta di un dito sollevato verso il cielo, oppure un insetto che cammina sui fogli di un quaderno. Anche le insicurezze di Yusuf derivano dalle piccole cose, dai fatti meno visibili, come quelle api che dovrebbero fornire il sostentamento alla sua famiglia, o quei nastrini rossi che premiano gli alunni migliori: si tratta, in entrambi i casi, di oggetti preziosi ma sfuggenti, perché volano via, o vanno in dono ad altri. L’angoscia di Yusuf è dover affrontare incomprensibili rinunce e frustrazioni,   che lo escludono da ciò che dovrebbe naturalmente appartenergli: i frutti del lavoro del padre, le gratificazioni che spettano ai suoi compagni. Così la vita, per tutti, va avanti, mentre lui soltanto rimane ad assistere ad uno spettacolo di cui non è interprete. I fatti avvengono, ma senza coinvolgerlo in prima persona: ciò rafforza il suo ruolo di osservatore che gode di una prospettiva esclusiva e distaccata, dalla quale è possibile convertire le immagini in fonti di grande meraviglia, oppure di infinito dolore. Stare in disparte significa così, per lui, poter continuare a costruire per suo conto una ragione per ciò che sembra inaccettabile, anche quando i punti di riferimento sono venuti meno. La prolungata assenza del padre fa svanire anche l’ultima certezza, rendendo infine tutto inafferrabile, come il riflesso della luna nell’acqua del pozzo, nella quale Yusuf affonda invano le mani. Così la vita, per lui, continuerà ad essere un girotondo in cui non gli è consentito inserirsi (vedi la scena della festa popolare) e la solitudine diventerà un dramma sempre più reale.  Bal è la storia di un’emarginazione non riconducibile alle note categorie sociali, perché ha come protagonista un bambino: un individuo che non si è ancora mescolato ai fenomeni del mondo, e per questo ha un modo veramente suo di percepire gli avvenimenti e le emozioni. Il caso di Yusuf si sottrae alle usuali classificazioni. La sua vicenda è unica ed indecifrabile, ed è possibile descriverla soltanto come  l’avventura solitaria di un animo vergine dentro la tenebrosa giungla dell’incomprensione.

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