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Alamar

Regia di Pedro González-Rubio vedi scheda film

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La recensione su Alamar

di Peppe Comune
8 stelle

Jorge (Jorge Machado) viene a Roma per prendere per qualche tempo con se il piccolo Natan (Natan Machado Palombino), il figlio nato da una relazione con Roberta, una ragazza italiana che ha conosciuto Jorge durante un viaggio in Messico. A Banco Chincorro, una zona che si trova a nord di Cancun, sede di una delle barriere coralline più grandi del mondo, li aspetta il padre di Jorge, Matraca (Nestor Marin”Matraca”), un anziano pescatore che pratica la pesca con metodi antichi e che Jorge e Natan aiuteranno nel suo lavoro giornaliero. Abitano tutti insieme in una palafitta, a stretto contatto con il mare e i doni della natura. Il quell’ambiente naturalistico, a  Natan sembrano non mancare affatto i comfort della sua casa romana. Gli basta stare tutto il tempo che può insieme al padre e imparare cose nuove sul mondo che lo circonda.

 

Natan Machado Palombini, Jorge Machado

Alamar (2009): Natan Machado Palombini, Jorge Machado

 

“Alamar” del regista messicano Pedro Gonzàles-Rubio è un film imprigionato in una luce abbagliante, caratterizzato da un colore azzurro acceso che rende indistinguibile il cielo ed il mare lungo quella linea d’orizzonte che trasporta i pensieri umani verso un’idea concreta d’infinito. C’è tutta la felicità terrena in quell’infinito, c’è tutta la possibilità di rimanere umani in quella rotta solcata dalle onde e accarezzata dalle nuvole, che attraverso il mare conduce l’umanità intera a riscoprire il senso più autentico del suo stare al mondo. “Alamar” (che significa “verso il mare”) segue appunto quest’urgenza di fissare un’idea precisa e concreta di felicità, che è quella derivante dal recupero di un rapporto complice e solidale insieme tra l’uomo e la natura circostante, un rapporto che comporta il lasciarsi coinvolgere dal sole, dall’acqua, dalla pioggia, dai pesci, dagli uccelli. Un rapporto che si fortifica nella condivisione dello stesso spazio e delle stesse cadenze temporali, attraverso la trasmissione di usi e saperi che si tramandano con efficace semplicità da padre in figlio. La storia (vera) di Jorge e Roberta non ha nulla di straordinario nella sua evoluzione sentimentale, se non il fatto che dalla loro relazione sia nato Natan, un bambino che gli impone di rimanere empaticamente vicini anche se lontani rimangono i mondi da cui provengono entrambi. Sia subito messo in chiaro che il film non intende affatto mettere in contrapposizione diversi modelli di vita, quanto fornire un quadro culturale di riferimento dove è possibile scorgere i segni di un'armonia conservatasi nel tempo tra l’uomo e la natura. In questa scenografia “naturalistica” dove c’è solo l’invito a scoprire l’altro e dell’altro senza rinnegare alcunchè, Natan viene ad essere il frutto inevitabile di un unione che doveva farsi, l’anello di congiunzione di culture che possono essere diverse e complementari insieme. Come dice Roberta, è stato il destino a volere la nascita di “questo particolare bambino, con questa particolare storia, in questo particolare parte del mondo”. Dall’Italia al Messico la strada è tanta e il piccolo Natan passa senza alcun contraccolpo psicologico dalla dimensione urbana a quella marina, con estrema naturalezza lascia la sua stanza confortevole piena di giochi per andare ad abitare in una palafitta in mezzo al mare, e non come un bambino che deve seguire a turno le volontà dei suoi genitori, ma come il prodotto naturale di una libertà che si compie appieno nell’innocenza di una coscienza vergine.  

 Il film parte (da Roma) come se si trattasse di un filmino amatoriale, con immagini mosse e strette, attaccate ai corpi, intente a catturare parole che sembrano volere recuperare una sintonia diluita dalla lontananza. Ad essere veicolate sono istantanee di vita vissuta le quali, pur nella loro approssimazione scenografica, proiettano sin da subito la sensazione di trovarci al cospetto di persone che esprimono un incorruttibile amore per la vita. Poi il film arriva a Banco Chincorro e si apre alla spazialità del cielo e del mare, un palcoscenico illustre che fa da scenario elegiaco al tenero rapporto tra Jorge e Natan, con il padre che inizia il piccolo figlio ai mestieri del mare e ai misteri della natura, ed il figlio che dona al padre momenti della sua voglia di conoscenza. Pedro Gonzàles-Rubio ci porta dentro una cornice marina a stretto contatto con delle pratiche pescherecce colte nella loro più autentica adesione alla vita, in modo da far oscillare il film tra il taglio documentaristico che caratterizza i momenti del lavoro e la forma poetica che avvolge e coinvolge il rapporto tra Jorge e Natan : un padre ed un figlio avidi di tempo da trascorrere insieme. Una cornice ancestrale che si fa atto di fede per il mare e per l’immensità del creato. Che è al tempo stesso amore per la libertà, per la vita, per i doni della natura, contro i pregiudizi, i confini imposti, i muri mentali. Il regista messicano è riuscito nel miracolo di fare di un piccolo film dallo stile “amatoriale” un’opera che riflette sul mondo con inusitata ed intelligente profondità. Nel suo equilibrare mirabilmente “verismo” antropologico e afflato poetico, “Alamar” riesce e sprigionare un vitalismo davvero coinvolgente. Intorno alla figura del piccolo Natan, un figlio del mondo (proprio come il Jonas di Alain Tanner) nato per ribellarsi alle disarmonie contemporanee. Cinema puro, bello ed essenziale.

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